Camera del Lavoro di Milano

Scheda redatta da Eleonora Cortese

Architettura civile

Data di costruzione 1933

Il palazzo è di proprietà della Camera del Lavoro di Milano, struttura territoriale della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro).
Occupa un’area di circa 2000 mq, è strutturato attorno a un piazzale sopraelevato, sovrastato da una torre centrale, e presenta un rivestimento unitario di mattoni su tutte le facciate, percorse al piede da una zoccolatura in granito verde della Val Camonica e arricchite con motivi novecenteschi di semicolonne, fasce, strombature e tondi in pietra calcarea. Una scalea costituisce il motivo principale della parete di fondo.
La fisionomia del palazzo si è modificata più volte nel corso degli anni.
Oggi le due testate laterali ospitano tre piani mentre il corpo centrale si sviluppa su sei piani, oltre il piano terreno. I sotterranei ospitano diverse sale e un ampio salone intitolato a Giuseppe Di Vittorio (primo Segretario Generale della CGIL), un luogo che la città ha imparato a frequentare, dove si fa sindacato, ma anche musica, cinema, cultura.

CENNI STORICI

Il concorso per la casa dei sindacati

Per la Casa dei sindacati era stato indetto un concorso, nel 1928, a cui avevano presentato i propri lavori numerosi professionisti milanesi e tra questi alcuni giovani architetti, entusiasti del nuovo tempo fascista. 
Vinse il quieto perbenismo borghese interpretato da Angelo Bordoni, Luigi Maria Caneva e Antonio Carminati che i fasci littori ingentiliti da statue li mettevano dinanzi ad un palazzotto a pianta quadrata, pieno di finestroni, più somigliante ad una moderna e razionale casa di abitazione. Rispetto agli altri aveva alcuni pregi: con la sua sobrietà aderiva all’intento dei committenti di esprimere “la muta volontà ricostruttrice delle masse lavoratrici milanesi”, inoltre si inseriva nel prospetto stradale con accessi da tre lati dotati di cinque atrii e questo pareva essere un modo per aprirsi ai lavoratori e ai loro bisogni, come si sarebbe
rimarcato a commento del progetto definitivo:

"Questo edificio, che è una costruzione aperta e potrebbe dirsi permeabile lungo tutte le sue fronti, s’informa al suo preciso programma di destinazione, che è quello di sede di un’organizzazione operaia, e vale a differenziarla dal palazzo chiuso a blocco, tipo padronale o tipo banca, in cui i privati interessi risultano, più che custoditi, difesi dietro l’apparecchiatura dell’unico por tale d’ingresso." (La Casa dei sindacati fascisti dell’industria in Milano, in “Rassegna di Architettura”, 1933, n.1)

Il progetto definitivo

La nuova sede del sindacato venne inaugurata dallo stesso Mussolini il 28 ottobre 1932, nel decennale della Marcia su Roma; tuttavia le rifiniture e le prove di staticità ne procrastinarono di un anno l’apertura effettiva.
Nel complesso il palazzo presentava, nella sua forma definitiva, qualche originalità monumentale e dava corpo a un’idea non ignobile di Broletto lombardo, con paramenti in laterizio e pietra verde della Valle Camonica, con tanto di torre campanaria, a rievocare concorsi di popolo e antiche virtù corporative.
Sulla fronte delle ali che davano sul Corso Vittoria insistevano due gruppi marmorei - forse più giustificati come fregio del frontone nella struttura “templare” a semicolonne, poi abbandonata - disegnati da Mario Sironi e scolpiti nella morbida pietra camuna verde-oliva.
Le due sculture, ispirate alla Carta del lavoro e alla Rivoluzione fascista, erano composte ciascuna di tre figure in posa ieratica, circondate da utensili e ruote dentate; vennero abbattute fra il 1973 e il 1974 a causa del loro degrado (si salvò solo una testa, ancor oggi conservata nell’edificio), ma ad impedirne il restauro contribuì certamente la damnatio memoriae e un pregiudizio allora corrente sull’ar te “fascista”.

Dettagli e rifinitura

Notevoli altresì le rifiniture, come le inferriate a “incudini e martelli” del piano terreno, firmate da Alessandro Mazzucotelli, le doppie scale semielicoidali esterne addossate ai lati della torre che permettevano l’accesso alla cella campanaria (oggi scomparse), i grandi lucernari protetti da velari (anch’essi scomparsi) che fornivano di luce discendente i due vani scala simmetrici e, infine, le grandi campiture dei paramenti fittili, per la gran par te giacenti in senso orizzontale, talora disposte in senso ver ticale a far da strombatura ai grandi finestroni della torre o a segnare cer te finestre in un gioco di vuoti e di pieni, talora invece sporgenti in obliquo, a realizzare la decorazione a piccoli fasci delle due facciate d’ala, o disposte in piano, nei grandi quadrati del piazzale ritmicamente intervallati da cornici in granito verde.
Era la prima sede di proprietà del sindacato milanese dopo la guerra lo Stato, che l’aveva incamerata, la concesse in uso alla Cgil che a sua volta poté rilevarla solo nel 1981 - e venne dotata delle attrezzature di un tipico sindacato burocratizzato e di diritto pubblico, a cui era vietata per legge l’organizzazione di scioperi ed era dedito in larga misura alla ver tenzialità, all’assistenza e al collocamento, nonché alla propaganda.

L'interno del palazzo

Il piano terra era destinato agli uffici di collocamento e alle casse mutue, il sotterraneo era in parte occupato da un salone per le “adunanze”, (significativamente aveva preso il posto del “teatro” del progetto originario, dove erano previste delle borghesissime poltrone che ora, in omaggio allo stile sempre più militaresco del regime, erano sparite), un altro salone di rappresentanza stava nella torre.
Il secondo e il terzo piano ospitavano le varie segreterie provinciali dei sindacati di categoria, mentre il primo era destinato al segretario provinciale, all’ufficio stampa, all’ufficio legale e all’amministrazione. Infine due scale esterne in facciata, ormontanti l’ingresso principale, culminavano in un aulico arengo una “loggia delle grida” che dominava la piazzetta interna del palazzo, più alta del piano stradale e collegata ad esso da sei gradoni e dove era previsto che convenisse una folla, sì, ma ridotta e che non disturbasse la viabilità.
Il tono generale degli interni intendeva rifarsi ai caratteri e alla sobrietà del luogo di lavoro, con l’evocazione dell’ambiente industriale visibile nell’uniformità del mobilio, semplice e razionalmente addossato alle pareti, negli infissi a ghigliottina, scelti per avere finestre ampie senza l’impedimento di grandi battenti, nelle tapparelle snodate, negli alti finestroni del salone d’onore con aperture a vasistas. Grande cura della diffusione della luce naturale, con l’utilizzo di por te a vetri per gli uffici e con ampie vetrature nei corridoi del piano terra, soprattutto in corrispondenza dell’accesso al pubblico.
Nella costruzione del sotterraneo, occupante l’intera area dell’edificio (più di 2 mila metri quadrati), i progettisti dovettero superare il problema delle controspinte derivanti dalla falda freatica, nonché dell’impermeabilizzazione del pavimento.
Una messa in opera quindi par ticolarmente delicata, tenuto conto delle conoscenze dell’epoca riguardo alla tecnica del cemento armato e del fatto che il soffitto del salone doveva non solo coprire, ma anche sostenere il peso di un migliaio di persone che avrebbero insistito sul piazzale sovrastante.
Le soluzioni adottate sono ancora oggi ammirevoli, soprattutto guardando al salone delle “adunanze”, a luce unica di 25 metri, nel quale fasci di quattro pilastri aper ti a ventaglio e addossati alle pareti si innestano direttamente nelle fitte nervature a vista del solettone, componendo uno straordinario soffitto a lacunari di grande impatto scenico. I ventagli di pilastri avevano origine agli estremi di tamburi semicircolari che digradavano verso il pavimento con scalini in laterizio, formanti una sorta di gradinata continua all’andamento sinuoso (ora scomparsa), che a sua volta conferiva slancio all’insieme. Notevoli erano altresì i cromatismi, peraltro caratterizzanti l’intero palazzo: le pareti del salone erano in mattone, così come la gradinata e il pavimento, mentre le opere cementizie (soffitto e pilastri) erano lasciate a calcestruzzo grezzo.
Il contorno di gradini ad anfiteatro culminava in una sorta di ambone - rimosso dopo il ‘45 e la cui unica testimonianza è ricavabile dal riferimento in pianta - posto di fronte ai cinque por tali d’ingresso.
Nel sotterraneo erano disposte altre due sale da riunione, adiacenti a quella centrale e comunicanti con essa attraverso quattro porte e altrettanti oblò (oggi coperti e che avevano la funzione di favorire il ricambio d’aria), nonché zone di servizio e persino un garage per biciclette.
Verso la fine degli anni Trenta l’esterno dell’edificio andò incontro ad un precoce degrado, desumibile nelle immagini d’epoca sia dalle ampie gorature e dagli affioramenti di salnitro ai lati delle finestre e sotto i cornicioni, sia dal rapido deteriorarsi dei paramenti e dei fregi in quella pietra camuna che tendeva a iscurirsi e a sgretolarsi.

I bombardamenti e la fine del sindacato fascista

Ma fu la guerra a determinare una svolta nella fisionomia del palazzo. Dal 7 al 16 agosto del ’43 Milano divenne bersaglio di una serie di bombardamenti a tappeto, condotti con spezzoni incendiari, durante i quali venne devastato il centro cittadino.
La Casa dei sindacati fascisti venne gravemente danneggiata, l’ala sinistra crollò quasi completamente, con l’esclusione della facciata sul Corso di Por ta Vittoria; la torre perse una par te della cella campanaria, l’interno subì un violento incendio, tale da distruggere gran parte del mobilio.
A quell’epoca il sindacato fascista era stato già posto in liquidazione dal governo Badoglio e successivamente il governo della Repubblica Sociale non si curò di avviare la ricostruzione della sede dei sindacati. Il rudere giunse così al 25 di aprile del ’45 e servì da postazione per un gruppo di irriducibili che venne a sua volta sgombrato da una colonna par tigiana. Nelle stanze ancora agibili si istallava il Comitato provinciale sindacale che sino ad allora aveva operato nella clandestinità.
Venne emesso un comunicato in cui si affermava che il Comitato avrebbe agito “per continuare l’opera interrotta della vecchia e gloriosa Camera del lavoro”.

La ricostruzione

Trascorso l’entusiasmo della Liberazione si dovettero però fare i conti con la realtà di una sede la cui proprietà era passata allo Stato, che rimaneva largamente inagibile e sulla quale pesava il giudizio negativo dei nuovi dirigenti sindacali milanesi.
In assenza di alternative la Camera del Lavoro dovette rimboccarsi le maniche e rivolgersi ai lavoratori, avviando fin dal 1947 una sottoscrizione per la ricostruzione. A complicare le cose intervenne la rottura dell’unità sindacale nel luglio del ’48 con l’uscita dalla Cgil della componente democristiana, tanto che alla fine di quell’anno le sottoscrizioni raggiungevano solo i 34 milioni di lire, contro i 95 milioni messi a bilancio per l’intera ricostruzione.
In ogni caso i lavori, sotto la direzione dell’architetto Mario Palanti (un divulgatore del Novecentismo italiano in America latina), terminavano entro quello stesso anno e il palazzo ne usciva profondamente mutato. Gli interni erano riattati e adeguati alle nuove esigenze, soprattutto al piano terra dove veniva ristrutturato il settore un tempo destinato al collocamento (su cui il sindacato non aveva più il controllo) e murate due delle quattro entrate laterali. Nella torre si eliminava il salone d’onore con la costruzione di due solette por tanti che tagliavano il volume esistente in modo da ricavare tre sale di pari ampiezza. Naturalmente si era resa necessaria la costruzione di due scale interne che consentissero l’accesso ai nuovi piani e contestualmente erano state abbattute le semielicoidi esterne. Al posto della cella campanaria semidiroccata si ottenne un sesto piano anch’esso collegato da scale interne, completandosi così la ridislocazione degli spazi e la trasformazione della torre in una componente funzionale dell’intero edificio. I valori estetici dell’esterno ne venivano completamente alterati: la costruzione delle scale interne aveva reso necessaria una superfetazione affiancante ai due lati la torre che perdeva così in snellezza e che, con la scomparsa delle arcature della cella campanaria, acquistava un volto severo, squadrato e incombente, compreso fra razionalismo novecentesco e realismo socialista. 
La costruzione delle scale interne di accesso alla torre imponeva altresì la coper tura dei due lucernari che illuminavano i vani scala originari. Si salvavano per ora i fregi sironiani, mentre venivano parzialmente scalpellati i fasci littorii in mattone delle facciate d’ala, che si trasformavano in elementi decorativi obliqui, ancor oggi visibili.
Nel corso degli anni l’edificio richiese interventi di manutenzione continui e ristrutturazioni interne, ma senza un piano organico e, soprattutto, senza un progetto di arredo che andasse oltre il riutilizzo di vecchi mobili, affiancati da moderne strutture d’ufficio in metallo.
Tuttavia, nonostante il complesso sovrapporsi di attività e di competenze, l’adattamento funzionale veniva costantemente trovato e se negli anni Cinquanta la Camera del Lavoro era divenuta una sorta di cittadella, tendente all’autosufficienza (come dimostrava il Centro di formazione residenziale, con le brande per i corsisti al sesto piano), nei decenni successivi, nel mentre diveniva un centro di irradiazione di iniziative di lotta sindacale, sempre più si apriva alla cittadinanza, fornendo servizi e assistenza e proponendosi come polo di aggregazione a prescindere dalla tessera sindacale.
Interessante osservare l’utilizzo del sotterraneo, in parte destinato ad una polisportiva (la Società Spar tacus); il salone, oltre alla normale attività congressuale della Camera del Lavoro e delle categorie sindacali, diventò, soprattutto a par tire dalla fine degli anni Sessanta, sede di spettacoli e di manifestazioni culturali, fino ad essere utilizzato da Dario Fo per il suo gruppo teatrale, dopo la chiusura della Palazzina Liberty nel 1979.

La ristrutturazione

Con la definitiva attribuzione della proprietà, avvenuta come si è detto solo all’inizio degli anni Ottanta, venne decisa una ristrutturazione globale dell’edificio, comprendente la pulitura delle facciate, il rifacimento di molti dei paramenti in pietra camuna (per i quali si dovette riaprire la vecchia cava dei Fratelli Cadei) e una organica risistemazione degli interni (arredo, sostituzione degli infissi, rifacimento integrale degli impianti, ricostruzione dei servizi ecc.).
L’intervento, firmato dall’architetto Paolo Silvani e durato sei anni, richiese un investimento ingente e por tò al ripristino integrale degli esterni senza che si introducessero particolari modifiche. Con alcune eccezioni: cornicioni in rame hanno sostituito le nervature in pietra originali ormai degradate, i battenti dei cancelli che chiudevano le entrate sul piazzale e che ripetevano i motivi delle inferriate delle finestre del pian terreno sono stati rimpiazzati da incongrue por te a vetri e metallo verniciato, la grande scritta frontale è stata rifatta (in sostituzione della precedente del dopoguerra, in cartongesso dipinto) utilizzando nuovamente la tecnica compositiva a mattoni aggettanti della scritta originale fascista e integrandosi così al paramento murario.
All’interno stile e accostamenti cromatici sono stati decisamente riformulati: le porte (piene) degli uffici, le pareti modulari e il mobilio sono ora in legno laminato grigioverde, le porte di interconnessione a vetri sono profilate in metallo smaltato in rosso, mentre gli infissi basculanti delle finestre, che hanno sostituito i precedenti a ghigliottina, sono in color noce scuro.
Importanti lavori ha richiesto l’introduzione di due ascensori (sempre in smalto rosso) e di una portineria a isola, nella cui par te retrostante, dove un tempo insistevano gli uffici di collocamento, si trova ora un’ampia zona ristoro.
Ma i cambiamenti più significativi riguardano certamente il sotterraneo dove si è inteso recuperare gli spazi di riunione che la ristrutturazione del ’48 aveva introdotto nella torre, ora completamente destinata agli uffici delle categorie e ai servizi.
Le sale laterali al salone (intestato a Giuseppe Di Vittorio) sono state munite di ingressi autonomi e una di esse è stata divisa in due più piccole.
Il salone, bisognoso di restauri, in particolare nella sede pavimentale, è stato completamente riformulato: chiuse le porte laterali e gli oblò con tamponamenti in legno, il pavimento è stato rialzato fin quasi al piede dei pilastri, occultando le gradinate e aumentando in tal modo la superficie occupabile; per garantire le uscite di sicurezza sono state inserite due bussole in vetro e metallo, verniciate in grigio-ferro e poste ai due angoli; il soffitto è ora segnato nelle sue nervature da piccole lampade pendenti che propagano la luce dall’alto al basso (togliendo densità agli effetti chiaroscurali), ed è attraversato da un praticabile in tubolare verniciato in blu che supporta faretti e un videoriproduttore; a queste discutibili cromie e sovrapposizioni si aggiunge la stuccatura in rosa veneziano dei fasci di pilastri laterali, il blu delle poltrone, il rosso-mogano delle tamponature laterali. La perdita di una parte delle proprie peculiarità architettoniche non ha impedito all’attuale salone Di Vittorio di diventare un luogo ben attrezzato che la città ha imparato a frequentare, dove si fa sindacato, ma anche musica, cinema e, in generale, cultura.
In conclusione l’intervento degli anni Ottanta ha ridato all’edificio il valore monumentale e la nitidezza del colore originario attenuatisi nel corso del tempo.
Inoltre, con la razionalizzazione degli ambienti la Camera del Lavoro ha confermato e, semmai, esaltato la propria funzione di luogo pubblico, sede di un sindacato moderno, rappresentativo di ogni articolazione del mondo del lavoro e nel medesimo tempo capace di dialogare con i cittadini e le istituzioni di una vasta area metropolitana.

(Maurizio Magri, Il Palazzo del Lavoro, Milano, Settembre 2012)

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