Il convitto infermiere
Le premesse, tra istanze umanitarie di fine secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale.
Paradossalmente un evento tragico come la Grande Guerra, con le sue conseguenze devastanti in termini di perdite umane, ebbe, dal punto di vista dell’assistenza, una conseguenza positiva. Innanzitutto mise in moto, per far fronte alla gestione di due milioni e mezzo di feriti, un imponente apparato di soccorso, istituzionale - Sanità Militare e Croce Rossa- e volontario, non solo in termini di risorse umane ma anche di mezzi di trasporto e di luoghi di accoglienza per i soldati: a Milano i 43 enti di ricovero approntarono 10mila posti letto per i feriti che giungevano dal fronte soprattutto con i treni-ospedale.
In secondo luogo l’eccezionalità e drammaticità della situazione non fece che ribadire che la preparazione infermieristica e l’organizzazione stessa dell’assistenza paramedica negli ospedali non poteva più seguire l’iter consolidato da secoli e che, se pur nel corso del tempo aveva subito miglioramenti e tentativi di razionalizzazione, mostrava un’evidente criticità.
Miglioravano la scienza medica e la preparazione professionale dei medici: anche per il personale addetto all’assistenza dei malati doveva essere prevista una formazione adeguata, più seria e approfondita di quella che veniva maturando attraverso la quotidiana esperienza a contatto dei pazienti. Fino a quel momento infatti l’istruzione era limitata a poche ore di informazione da parte di qualche medico volonteroso e veniva poi completata sul campo sotto la supervisione delle religiose cui spettava tradizionalmente il ruolo di caposala. Il reclutamento del personale avveniva senza alcuna selezione in base a un titolo di studio, le condizioni di lavoro erano logoranti e malsane. Spesso le infermiere si ammalavano di tubercolosi o di altre malattie contagiose, vivevano all’interno dell’ospedale in ambienti freddi e umidi, quelli non ritenuti idonei al ricovero dei degenti, spesso in aree dismesse o nei sottotetti; erano disponibili praticamente 24 ore su 24, senza una turnazione sensata che tenesse conto anche dei necessari periodi di riposo.
Anna Fraenzel, moglie dell’insigne epidemiologo Angelo Celli, aveva fatto una delle prime indagini delle condizioni delle donne infermiere in Italia ed era giunta a conclusioni sconfortanti notando come il contesto italiano fosse in ritardo rispetto a quello di altri Paesi europei che avevano già cominciato a dare un impulso in senso scientifico e professionale al ruolo degli infermieri.
Intanto alla Ca’Granda con un’occhio all’esperienza inglese…
In quegli anni sono fortemente presenti nell’ospedale milanese sia l’istanza di provvedere a un alloggio decoroso alle infermiere sia l’esigenza di poter dare una formazione professionale migliore al personale. Nel vecchio edificio sforzesco gli spazi peggiori erano adibiti a dormitorio delle infermiere. Con la costruzione dell’ospedale a padiglioni, già si era provveduto a un miglioramento delle sistemazioni, destinando loro generalmente l’ultimo piano dei Padiglioni stessi. Dopo il Congresso dei Medici Ospitalieri del 1907, in cui si esprime la speranza di poter avere “un personale infermieristico colto, educato, intelligente, con dolcezza di modi, prudenza, discrezione; giusto, rispettoso, obbediente, previdente, calmo, pronto e pulito” (un obiettivo che non poteva non sottintendere una formazione professionale idonea a realizzare una simile figura di ruolo) si decide intanto di ospitare una parte delle infermiere anche nel Padiglione servizi costruito nel 1906, che inizialmente era riservato alle suore che lavorano all’interno dell’Ospedale (non sono molto numerose data la vocazione laica dell’ente; appartengono alla Congregazione delle Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, comunemente dette di Maria Bambina; si occupano della gestione dell’economato; quelle che lavorano nei Padiglioni, oltre a espletare tutte le incombenze relative alla professione, rivestono tradizionalmente il ruolo dirigenziale di Caposala), e a dormitorio del personale femminile addetto ai servizi generali e all’assistenza immediata. Adibire una parte del Padiglione Servizi a dormitorio per le infermiere è davvero un grande passo avanti, ancor più significativo quando sette anni verrà eretto un secondo corpo di fabbrica interamente destinato questo scopo.
Parallelamente al miglioramento progressivo delle condizioni abitative viene portata avanti la proposta di una Scuola Professionale legata all’Ospedale. Sarà una donna straordinaria a dare una spinta propulsiva alla attuazione di questa realtà. Ersilia Bronzini Majno, prima donna tra l’altro a essere ammessa nel Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale (e che per molto tempo detenne questo primato di unica consigliera donna), lavorando in una Commissione con Camillo Broglio e Achille Manfredini formalizza la Proposta per l’istituzione di una Scuola per infermiere. La richiesta viene recepita: tra il 1913 e il 1915 viene steso il Regolamento della costituenda scuola, che, con delibera 19 giugno 1917, sotto la presidenza di Alessandro Schiavi, si istituisce con sede presso l’Ospedale Ciceri Fatebenesorelle (istituzione tra quelle facenti capo all’Ospedale Maggiore).
Ovviamente non sarà estraneo neppure a questa neonata scuola il modello inglese. La mitica Florence Nightingale, che fin dai tempi del conflitto in Crimea nel 1854 aveva dato prova di grandi capacità organizzative e di lungimiranza scientifica, e che, una volta tornata in patria, aveva fondato la Scuola infermiere con annesso Convitto presso il St. Thomas’s Hospital, era l’incontrovertibile apripista. Anche su come fronteggiare l’ostruzionismo di un certo ambiente medico, che vedeva nell’evoluzione culturale e professionale di un personale considerato subalterno un pericoloso rischio di ingerenza in un territorio fino ad allora privilegiato ed esclusivo.
La formazione della Scuola dell’Ospedale Maggiore durava due anni, era basata su corsi teorici e pratici, insegnava al personale anche l’uso di apparecchi medicali e si proponeva di fare dell’infermiere un vero assistente del medico, dando vita a una nuova sinergia tra due figure con ruoli professionalmente diversi ma interagenti sul medesimo soggetto, il paziente.
Dalla lungimiranza dei precursori all’istituzione ufficiale
Con regio decreto del 15 agosto, nel 1925 la creazione e apertura delle Scuole Convitto per infermiere diventa una legge dello Stato. Tali istituzioni sono statali, con una durata stabilita in due anni, alla fine dei quali si acquisisce il “Diploma di Stato per la professione di infermiera” . È obbligatorio l’internato in Convitto, può essere istituito un terzo anno di corso per l’abilitazione a funzioni direttive. L’amministrazione è affidata ai direttori sanitari e ai primari. L’obiettivo è “di impartire alle allieve, con unità di indirizzo e metodo scientifico, tutte le nozioni teoriche e pratiche necessarie a bene esercitare e dirigere l’opera di assistenza agli infermi”. Aperti solo alle donne forse perché l’“assistenza” (la parola deriva dal latino ad sistere, stare accanto) appare peculiare del sesso femminile, con insegnanti appartenenti alla classe medica - unica figura di infermiera quella della direttrice del Convitto, addetta però più che altro al controllo della vita morale delle allieve - formano donne che, rigorosamente nubili o vedove senza prole, avrebbero trascorso l’intera vita in ospedale dedicandosi alla cura dei malati. Più elastico l’atteggiamento nei confronti del titolo di studio richiesto per l’ammissione: dapprima è la licenza di scuola media di 1° grado, poi, data la difficoltà di trovare giovani donne con tale qualifica, si ritiene sufficiente il diploma di compimento del ciclo della scuola primaria. Il ceto di provenienza è indicato in maniera abbastanza vaga: “classi di civile condizione”.
L’Ospedale Maggiore non pone troppo tempo in mezzo: il 2 gennaio 1931 nel Padiglione Bosisio inizia a funzionare la Nuova Scuola Professionale Convitto per infermiere e Capisala degli Istituti Ospitalieri di Milano. Decisione innovativa quella di dotare la Scuola di un Convitto, offrendo così una soluzione abitativa alle infermiere. Nel 1932 addirittura iniziano i lavori di ristrutturazione per dotare l’edificio anche di un terzo piano destinato a ospitare le allieve. Direttrice della Scuola è la contessa Maria Sforza, vicedirettrice Suor Cecilia Galli, delle Suore di Carità di Maria Bambina. Nel 1935 la direzione viene affidata a suor Emilia Vinante (vicedirettrice suor Pierina Pin), che la condurrà con grande perizia fino alla sua scomparsa, nel 1968. Familiarmente le allieve vengono chiamate “signorine Violette”, per il colore dell’abito della divisa, portato sotto un grembiule bianco.
La prima sede della Scuola, la costruzione del Convitto e suor Emilia Vinante
Il Padiglione che inizialmente ospita la Scuola Convitto porta il cognome di un grande benefattore dell’Ospedale, Luciano Bosisio, imprenditore edile, che in vita, nel 1915, destina una somma ingente, 1.150.000 lire, per l’edificazione di un nuovo padiglione di specialità scientifica, da intitolare alla figlia Annetta e alla moglie Carolina Annoni. Identificata l’area, quella dell’ex convento di Sant’Antonino, si progetta un edificio a due piani nello stile dei Padiglioni Guardia e Isolamento anzi “costituente con questi fabbricati, già eretti, un sol complesso”. La costruzione viene posticipata a causa dello scoppio della guerra. Il Padiglione, progettato dall’architetto Radaelli, in origine destinato alla Roentgen terapia, diviene invece sede dell’Istituto Antirabico e inaugurato il 24 giugno 1924. Nel 1930, sia per il trasferimento dell’Istituto Antirabico all’interno dell’edificio sforzesco sia per la riduzione del numero dei pazienti afflitti da tale patologia, col consenso del benefattore, che nel contempo aveva investito nella costruzione altre somme considerevoli, viene deliberata dal Consiglio l’ulteriore nuova destinazione dell’edificio, in Scuola Convitto Professionale per infermiere.
Si comincia però immediatamente a pensare a un edificio destinato esclusivamente a Convitto. L’edificio viene inaugurato il 16 dicembre 1934. Progettista e direttore dei lavori è l’ingegner Virgilio Riva, capo dell’Ufficio Tecnico dell’Ospedale. Grande rilievo viene dato dall’allora presidente Massimo Della Porta all’iniziativa. Prevedere un alloggio dedicato per le infermiere significa davvero creare una fidelizzazione grandissima con l’ospedale e un grande senso di appartenenza da parte del personale, oltre che essere un’iniziativa di grande utilità sociale. La Scuola - Convitto funziona, all’interno degli Istituti Ospitalieri di Via Francesco Sforza, fino al 1939. In quella data, con l’inaugurazione del Nuovo Ospedale Maggiore a Niguarda, lì vi si trasferisce, occupando il Padiglione appositamente dedicato.
Suor Emilia Vinante “segue” la Scuola. La sua personalità e le sue doti danno un grandissimo contributo non solo all’Ospedale di Niguarda ma a tutta la professione infermieristica italiana. Sostenitrice assidua della necessità urgente di aumentare il numero delle infermiere diplomate e quindi dell’apertura di nuove Scuole-Convitto, per far fronte alle sempre più numerose esigenze della sanità pubblica e per assicurare che a occuparsi dei pazienti sempre più numerosi sia un personale preparato. Si dedica con passione alla formazione delle infermiere, sostenendo l’inscindibilità di teoria e pratica (è tra le prime a utilizzare una bambola manichino importata dagli Stati Uniti) ma spendendo immense energie anche all’educazione a un’etica della professione. L’infermiera deve possedere una formazione “non solo dal punto di vista scientifico e tecnico, ma altresì da quello morale e etico; e ciò perché essa dev’essere persona di coscienza retta, capace di operare sempre e comunque il bene”(…) “È indispensabile portarle a discernere facilmente il bene dal male, in modo che di fronte a decisioni improvvise e impreviste, sappiano scegliere la via giusta evitando errori”. Pone una grande attenzione anche al concetto “relazionale” dell’infermiera, non solo nei confronti del paziente ma in rapporto anche alle altre figure, professionali e non, con cui entra in contatto (medici, caposala, colleghe, parenti). Stila nel 1947 un manuale in cui raccoglie i principi e i metodi d’insegnamento della Scuola, affinché l’istruzione abbia un andamento unitario e tutti vi si attengano. Sottolinea l’utilità dell’adozione di un “libretto personale” dell’allieva (non molto diverso dal libretto universitario), diciassette anni prima che tale strumento venga reso obbligatorio, nel 1967, dall’Accordo Europeo di Strasburgo.
Nella vera e propria cittadella che la Scuola – Convitto costituisce (essa ha un personale e servizi propri: oltre alle cucine e alle dispense, al guardaroba e alla lavanderia, addirittura una sartoria per il confezionamento delle divise, ha un proprio contabile ed è autonoma nella gestione economica) è attenta non solo alla formazione delle allieve, ma ai disagi che esse possono incontrare (la lontananza da casa, difficoltà di apprendimento, caposala didattiche troppo severe, impazienti o intolleranti di fronte all’inesperienza o agli sbagli).
Il trasferimento della Scuola – Convitto a Niguarda non determina la chiusura del Convitto dell’Ospedale Maggiore e le infermiere potranno continuare ad alloggiare per lungo tempo nel “loro” Ospedale, che risolve così uno dei problemi più gravi per chi deve vivere e lavorare a Milano, quello abitativo. Purtroppo la Scuola Infermieri trasferita al Niguarda, benché il numero delle iscrizioni aumenti, diploma un numero sufficiente solo per il “suo” ospedale, ma non per il Policlinico, che paradossalmente, a livello formativo, arretra allo status pre legge istitutiva delle Scuole Convitto Professionali. Il suo personale sostiene quindi solo corsi teorico-pratici di addestramento, molto meno qualificanti di quelli delle scuole preposte all’istruzione degli infermieri. Nel 1957 l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Salute Pubblica autorizza finalmente l’istituzione di una Scuola per Infermieri generici (la direzione viene assunta dal direttore sanitario dottor Piero Gemelli e da Suor Luigia Pogliani, direttrice del Convitto. Le prime lezioni si svolgono in alcuni locali del Pronto Soccorso e nell’Aula Borghi) e nel 1960 si ampliano gli spazi del Convitto per poter migliorare sempre più la condizione delle convittate, costrette in parte ancora ad alloggiare all’interno dei Padiglioni Ponti e Beretta. Forse anche per l’indiscutibile difficoltà di trovare spazi idonei ad ospitare le aspiranti infermiere, il cui numero continua a crescere, si decide “lo scollegiamento”: da questo momento solo le infermiere che ne faranno richiesta risiederanno nel Convitto, le altre potranno rinunciare alla vita collegiale e ospedaliera, elemento da sempre connaturato alla professione di infermiera.
I cambiamenti legislativi (e non solo) dopo gli Anni Settanta
Nel 1971 la formazione “si apre” anche alle persone di sesso maschile e si stabilisce l’obbligatorietà, per acceder alla Scuola, del possesso dell’ammissione al terzo anno di scuola superiore. In quello stesso anno Niguarda viene scorporata dagli Istituti Ospitalieri e si costituisce in Ente Autonomo. Nel 1975-76 gli anni di formazione della Scuola passano obbligatoriamente da due a tre. Negli Anni Ottanta si costituisce nuovamente all’Ospedale Maggiore una Scuola per Infermieri Professionali, con sede nell’edificio Opera Pia Valetudo. Nel 1995 nasce il corso di laurea con Diploma in Scienze Infermieristiche, Niguarda è una delle sezioni. L’Ospedale Maggiore lo diventa a sua volta a partire dall’anno accademico 2002-2003.
È naturale che con il passaggio all’università il ruolo dell’Ospedale nella formazione infermieristica, pur restando di fondamentale importanza, muti. E cambia moltissimo la considerazione sociale nei confronti della professione. In una settantina d’anni si è giunti a fare dell’infermiere un professionista laureato. Sono stati compiuti passi da gigante in campo normativo, legislativo, formativo ed educativo. Tuttavia alla base, per coloro che intraprendono questa professione, restano comunque valori semplici, ma fondamentali: la predisposizione all’assistenza, il rispetto per il malato, la coscienza di vivere un aspetto relazionale di grandissima importanza e profondità, la curiosità mai sopita per un costante apprendimento, soprattutto quando si ha la fortuna di incontrare veri maestri di lavoro e di vita. Resta anche però la difficoltà, in una città come Milano, di trovare alloggi a prezzo calmierato.
E per concludere… un vero gioiello
A Milano l’Ospedale San Carlo, inaugurato da Aldo Moro nel 1967, con la chiesa di Santa Maria Annunciata “un vascello-arca dove si possono incontrare l’uomo e Dio” costruita da Gio Ponti, viene realizzato anche uno splendido Convitto, che arriva ad ospitare fino a 360 persone tra suore, infermiere diplomate, allieve e aiutanti infermiere. È un vero e proprio villaggio, con diversi edifici, lontano dal blocco ospedaliero, con l’obiettivo di creare un distacco netto tra ambiente di lavoro e zona abitativa. Il Convitto per le suore è completamente autonomo, dotato di cucina e addirittura di chiesa e di chiostro. Anche il Convitto per le allieve infermiere è dotato di una mensa interna, mentre il “residence” che ospita le infermiere non allieve della Scuola usufruisce della mensa generale del personale, ma è stato previsto all’interno uno spazio comune dove è possibile scaldare bevande e preparare semplici pasti. Appare evidente la ricerca di creare un contesto il più possibile simile a un ambiente familiare. Tutti i diversi edifici sono collegati tra loro al piano seminterrato, in diretto contatto poi, attraverso due percorsi, al reparto “operativo” delle infermiere, quello delle degenze, e al settore dei servizi generali dell’ospedale. La parte destinata all’attività scolastica consta di un’ampia aula a gradoni con 100 posti, biblioteca, sale di studio e di esercitazione.
A completare il progetto di fidelizzazione del personale all’ospedale, la creazione di un asilo-nido per le dipendenti madri, un’attenzione quanto mai utile non solo dal punto di vista sociale ma anche garanzia di maggior disponibilità e presenza del personale femminile, sollevato dal problema del collocamento dei bambini piccoli.
Ovvio che una simile istituzione non possa che suscitare ammirazione. Il rimpianto nasce da due fattori, innanzitutto che oggi (e da tempo) non funzioni più e che anche non sia servito da modello da imitare da parte di molti ospedali, preservando quello spirito collegiale e di appartenenza che il sistema originario garantiva, dalla visione organizzativa ed etica di partenza.
Bibliografia
- L’Ospedale San Carlo Borromeo, a cura di Franca Chiappa, Milano 1968, Edizioni de “La Ca’ Granda”
- Niguarda un ospedale per l’uomo nel nuovo millennio, a cura di A. Crippa e V.A. Sironi, Cinisello, Silvana Ed. 2009
- Annalisa Silvestro, Da ausiliari a professione intellettuale: il percorso degli infermieri, in www.rivista.ssef.it
Siti web
- www.policlinico.mi.it
- www.infermieristicamente.it
- www.nurse24.it