Casa materna per i figli dei richiamati (1915-1919)

Scheda redatta da Eleonora Cirant

Nel 1915, ad un mese dall'entrata in guerra dell'Italia, l'Unione femminile nazionale aprì nella propria sede la Casa materna, un asilo per bambini e bambine di età compresa fra un mese e tre anni. L'asilo nido - come già si usava dire - era destinato a famiglie in condizioni di difficoltà economica e fragilità sociale aggravate dal contesto bellico: situazioni frequenti tra i quartieri di Porta Garibaldi, Porta Nuova e Porta Tenaglia, come rilevato dalle indagini delle unioniste sul territorio in cui operavano.

Il denaro necessario per le prime spese era stato raccolto attraverso una sottoscrizione fra i soci e i benefattori abituali dell’Unione, cui si era chiesto anche un aiuto in materiali, quali vaschette da bagno, tazze, cucchiai, tettarelle, tele cerate. L’attività dell’asilo – di cui fu nominata presidente Jole Bersellini, “la buona mamma” - fu resa possibile inizialmente grazie a un gruppo di giovani volontarie che provenivano in maggioranza dalla “Fraterna” e dalle aderenti al  Gruppo delle donne Trentine, affiliato all’Unione Femminile: “signore e signorine, che con costanza ammirevole si prodigarono per le piccole creature e vissero giorno per giorno della loro vita, seguendo con materno amore ogni piccolo progresso”. Tuttavia, vista l’ingente quantità di lavoro richiesta, alla fine del 1916 si decise il ricorso ad altro personale, questa volta “a pagamento per tutta la giornata”. Tra le famiglie che usufruirono del servizio e le assistenti che in esso lavoravano, nacque immediatamente “un simpatico rapporto di confidenza”: le mamme si recavano tranquille al lavoro ogni mattina, sapendo che i loro piccoli erano in buone mani e si confrontavano con le assistenti sui vari problemi quotidiani relativi ai figli, ricevendone consigli e aiuti. Inoltre, molte di queste donne lavoravano nel Laboratorio dell’Unione [1], quindi non lontane dai loro figli che nella buona stagione potevano anche vedere, mentre giocavano all’aperto, nell’attiguo cortile. (Gaballo, p. 127-128)

La Casa materna, aperta ufficialmente per i figli dei richiamati, accolse anche bambini orfani o abbandonati, figli di disoccupati, di genitori malati e profughi. Le domande di ricovero furono in totale 449, ma i ricoveri ricoprirono solo poco più di metà delle richieste. Le altre vennero indirizzate a servizi più vicini, oppure respinte per mancanza di requisiti.

Le condizioni di accettazione, infatti, erano piuttosto restrittive: i bambini ammessi dovevano arrivare alla Casa “scrupolosamente puliti”, con i capelli tagliati, e la loro “sana costituzione” doveva essere certificata da un medico. Alla chiusura della Casa, il 28 febbraio 1919, si provvide alla sistemazione dei bimbi ancora presenti; alcuni furono inviati a Pallanza, in cura elioterapica e   tutti gli altri beneficiarono di una distribuzione settimanale di alimenti, per un periodo minimo di tre mesi, resa possibile dal fatto che il bilancio si chiudeva in attivo, con un avanzo di circa ottocento lire che la Commissione decise di spendere appunto per l’acquisto di latte, farina lattea e uova. (Gaballo, p. 127-128)

[1] Con l'inizio della guerra e il richiamo degli uomini al fronte, l'Unione aveva aperto un laboratorio per dare lavoro a donne disoccupate, dove si producevano biancheria e maglieria per l'esercito, in coordinamento con l'Amministrazione militare. Una volta messa a regime, l’attività venne poi inglobata con le altre gestite dal Comune.

Bibliografia: Graziella Gaballo, L'Unione femminile tra impegno sociale, guerra e fascismo (1899-1939), Ed. Jocker, 2015