Milano 1861-2020

di Augusto Rossari

Il testo percorre un secolo e mezzo di storia urbana milanese. Come testimonia il grafico dei residenti, Milano cresce costantemente dai 196.000 abitanti del 1861 fino a 1,7 milioni di abitanti nel 1974 con due impennate negli anni Venti e negli anni Cinquanta del secolo scorso. Poi la popolazione decresce fino al Duemila (1,25 milioni di abitanti) per riprendere leggermente quota negli ultimi anni (1,35 milioni di abitanti nel 2016). A questo sviluppo corrispondono una serie di provvedimenti urbanistici che il testo racconta cercando di mettere in luce come il modello monocentrico e a macchia d’olio, impostato dal piano Beruto alla fine dell’Ottocento, abbia una lunga persistenza e rimanga dominante nonostante diversi tentativi di cambiare rotta introducendo scelte di decentramento. In particolare la questione emerge con lucide proposte in occasione dei concorsi per il nuovo PRG del 1925 e del 1945. Solo con l’inizio del nuovo secolo però si intravvedono nuovi indirizzi con la creazione di alcuni poli metropolitani esterni.

Nel 1861, in occasione dell’Unità d’Italia, Milano era una piccola città di 169.100 abitanti, separata dal territorio circostante dalla cerchia di mura che, perduta la funzione difensiva, serviva come confine daziario e come pubblico passeggio. Fuori dalle mura giaceva la campagna con sparsi chiese e cimiteri – i “Corpi Santi” – cascine e poche altre costruzioni. A nord, fuori porta Orientale ora Venezia, sorgeva il grande quadrato quattrocentesco del Lazzaretto e, lungo le principali arterie di collegamento con le altre città lombarde, i “borghi”. Le fortificazioni stellari attorno al Castello Sforzesco erano state demolite, all’inizio dell’Ottocento, in periodo napoleonico, creando una apertura verso nord-ovest, non a caso orientata verso la strada per la Francia. In questo spazio furono realizzate la piazza d’Armi, trasformata in seguito nel parco Sempione, e l’Arena (Luigi Canonica, 1806). Nonostante nelle mappe e nelle stampe d’epoca la città sia ben individuata come un’unità costruita, già allora essa era strettamente legata al suo territorio da relazioni produttive ed economiche.

Grafico della popolazione residente a Milano tra il 1861 e il 2011

Grafico della popolazione residente a Milano tra il 1861 e il 2011

Milano cresce senza piano (1861-1884)

Dopo l’unificazione nazionale diversi fattori stimolarono la crescita di Milano. Tra questi la costruzione della rete ferroviaria che collegava la città a ovest con Torino (1856-59), a nord con Monza (1840, e in seguito, attraverso il traforo del Gottardo, con il centro dell’Europa), e a est con Venezia (1842-54). La linea Milano-Venezia fu tracciata attraverso il Lazzaretto, portando un primo attacco alla sua integrità. Più tardi dopo il 1882 una lottizzazione intensiva ne completò la distruzione.

Le prime industrie si insediarono dopo il 1842, specialmente intorno alle stazioni ferroviarie – la prima stazione Centrale (1857-64) a nord e quella di porta Genova (1870) a sud – richiamate dalla vicinanza del mercato milanese, dalla disponibilità dei trasporti e dalle facilitazioni daziarie e fiscali di cui godeva il comune esterno dei “Corpi Santi” – disposto ad anello attorno alle mura spagnole. Nel 1873 l’aggregazione del comune esterno unificò la fiscalità nel territorio di Milano e sancì, anche amministrativamente, le interdipendenze tra il centro di Milano e l’hinterland.

Dopo l’aggregazione dei “Corpi Santi” fu fatto un primo tentativo di regolare e controllare lo sviluppo e l’edificazione con la stesura di un piano regolatore (Ing. Angelo Fasana, 1876), che però ebbe solo valore di guida e indirizzo per il comune, senza essere adottato e assumere un valore legale.

Tuttavia la lottizzazione selvaggia del Lazzaretto e quella, del tutto simile, proposta nel 1881 per l’area della piazza d’Armi e del Castello Sforzesco sollevarono di nuovo la necessità di regolare la crescita della città. Nel 1884, quindi, la Giunta conferì all’ingegnere comunale Cesare Beruto l’incarico di progettazione del Piano regolatore e d’ampliamento del comune di Milano, avviando l’iter di approvazione che si concluse nel 1889, dopo la discussione di una seconda stesura nel 1885 e di quella definitiva tra il 1888 e il 1889 (la seconda e la terza definite da Beruto in collaborazione con la Commissione consigliare presieduta da Giovanni Battista Pirelli).

Il Piano Beruto (1884-1889)

Il piano, che tracciava una zona di ampliamento, tutt’attorno alla cerchia delle mura spagnole, di 1825 ha (accresciuta fino a 1903 ha nella seconda versione) per una popolazione di 526.000 abitanti in 25 anni, prevedeva anche la demolizione delle mura e la copertura del Naviglio interno, considerati degli ostacoli per le comunicazioni tra le zone. Le mura avrebbero dovuto essere sostituite, sul modello viennese del Ring, con una zona verde commista a poche costruzioni ma, nel corso degli anni – le operazioni di demolizione si protrassero per più di cinquant’anni – il verde fu soppiantato quasi totalmente da costruzioni.

All’interno della cinta spagnola il piano congiunse in un unico disegno urbano, tracciando la via Dante, piazza del Duomo e piazza della Scala con il Cordusio e il Castello; un’operazione che valorizzava le aree interessate. In particolare attorno al Castello proponeva il Foro Bonaparte (una struttura semicircolare memore del progetto antoliniano di inizio secolo), formato da isolati destinati a residenza borghese di alto livello, che traeva vantaggio dalla vicinanza del parco Sempione, in corso di realizzazione nell’area della piazza d’Armi, e dal restauro del Castello, destinato a musei, biblioteche e altri servizi culturali. Questo complesso è ancora oggi il segno più caratterizzante del centro di Milano. Soprattutto la Galleria Vittorio Emanuele di Giuseppe Mengoni costituisce un’eccellenza in cui si coniugano la poetica eclettica e le nuove tecnologie del ferro e del vetro.

L’anello di ampliamento era basato su una struttura radiocentrica, imperniata sulle radiali che dal centro si estendevano verso il territorio circostante; tra le radiali giaceva una maglia regolare di isolati e di strade la cui organizzazione era affidata, oltre che alle variazioni del calibro stradale, anche a quelle delle alberature.

Mentre nella prima versione l’interesse progettuale era focalizzato prevalentemente sulla zona ovest dove erano situati il nodo della piazza d’Armi, oggetto già nel 1880 di una proposta di lottizzazione della Società Fondiaria, e le aree a nord di corso Magenta di proprietà della medesima società, nelle due versioni successive la distribuzione delle aree verdi era disegnata con più cura equilibrando la presenza nelle diverse zone e recuperando a parco urbano la zona della piazza d’Armi (l’attuale parco Sempione). In particolare la versione definitiva tracciava due anelli alberati, uno sul perimetro esterno dell’edificazione e uno più interno che connettevano i principali parchi e i viali in direzione radiale. Questi ultimi costituivano anche nuclei di connessione e passaggio tra il tessuto edificato e le aree rurali. Sul viale più interno si situavano infine tre piazze, dotate di vasche d’acqua per bagni pubblici economici, che insieme alle otto aree destinate alle scuole costituivano la dotazione di servizi sociali prevista dal piano regolatore.

Il sistema degli spazi pubblici, vie e piazze, e del verde assumeva quindi nel piano regolatore un ruolo importante non solo dal punto di vista igienico-sanitario (assolvendo al compito che nella prima versione era affidato agli isolati più grandi, pensati con spazi verdi all’interno), ma anche da quello della forma urbana; ad esso era infatti soprattutto assegnato il compito di connotare gli spazi e i percorsi urbani, di definire gerarchie e punti di interesse. Non a caso il sistema delle vie e dei viali alberati è ancora oggi uno dei pregi più importanti del piano Beruto.

Dopo l’approvazione il piano fu continuamente ridimensionato mediante varianti che tenevano conto delle varie pressioni emerse nel frattempo. L’edificazione, ad esempio, fu estesa di altri 188 ettari verso nord-ovest, nelle zone considerate più salubri, a tutto vantaggio dell’onnipresente Società Fondiaria che lì si era assicurata delle aree. Nei venti anni successivi (1891-1911) si verificò un forte aumento della popolazione, che raggiunse quasi 600.000 abitanti, una attività edilizia molto sostenuta, 220.000 nuovi vani tra il 1881 e il 1911, e l’insediamento delle principali industrie. In questo periodo l’impegno dell’Amministrazione era rivolto ad adeguare la rete delle infrastrutture: gas nel circondario esterno nel 1882, acquedotto e fognatura nel 1888, avvio delle tramvie elettriche nel 1892.

La gestione del piano fu condizionata dalla mancanza di un demanio di aree da destinare a servizi che costrinse l’Amministrazione a venire a patti con l’iniziativa privata, proprio nel momento in cui la prorompente crescita edilizia e l’aumento della scolarizzazione determinavano un sensibile incremento della domanda di servizi collettivi. Non furono così realizzati i giardini pubblici in via Melchiorre Gioia, il parco circolare a ovest del carcere di S. Vittore e le tre aree attrezzate con bagni pubblici, mentre molti altri giardini e piazze furono radicalmente ridimensionati. Inoltre il riordino ferroviario, definito nel 1905 da una apposita commissione, senza nessun coordinamento con la pianificazione urbanistica, introdusse una serie di vincoli allo sviluppo della città, senza che il comune fosse in grado di sfruttare le opportunità che la nuova rete ferroviaria avrebbe potuto offrire se fosse stata interconnessa con i trasporti urbani, invece col suo rilevato rappresentava solo un ostacolo alle comunicazioni. De Finetti scrive che «la ferrovia soffoca la città».

All’inizio del Novecento la stagione liberty ha lasciato i segni più importanti nelle zone di prima espansione del piano Beruto: a porta Venezia il Kursaal Diana e oltre in via Malpighi e via Pisacane; nella zona sud-ovest col quadrilatero attorno a via XX Settembre (per cui Beruto aveva previsto una lottizzazione di villette con giardino, quasi unica a Milano). Da ricordare anche i due quartieri popolari della Società Umanitaria, opere di Giovanni Broglio, dotati di servizi comuni e di verde.

Negli anni della realizzazione del piano Beruto i processi di industrializzazione accentuarono gli squilibri sociali con conseguenti violenti disordini contro l’inasprimento del dazio sul pane (1885) e ancora conto il carovita (1898). Questi ultimi furono duramente repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris usando le armi e anche l’artiglieria. I partiti che formavano la giunta comunale, che si era accodata alla reazione, vennero sconfitti nelle elezioni del 1899 vinte dalle sinistre. Giuseppe Mussi, radicale, fu il primo sindaco progressista della città.

Dopo il Beruto: Pavia Masera e Albertini il perpetuarsi del modello radiocentrico (1889-1940)

A questo punto occorre spendere qualche parola a proposito del modello di sviluppo configurato dal piano Beruto: un modello radiocentrico che dal «centro unico e senza emuli», proiettava verso l’esterno le radiali che lo collegavano con il territorio. Attorno al nucleo storico era previsto uno sviluppo equipotenziale, praticamente uguale in tutte le direzioni. Per definirlo Beruto utilizzava una metafora organica: «la pianta della nostra città in piccola scala presenta molta somiglianza con la sezione di un albero, vi si notano assai bene i prolungamenti e gli strati concentrici. Non si è fatto quindi che darle la voluta maggiore estensione». Tale modalità di sviluppo fu perpetuata nei piani successivi: il piano Pavia Masera del 1912 che aggiunse una ulteriore anello di espansione e di edificazione, più esteso a est e a ovest, intorno al nucleo centrale e il piano Albertini del 1934 che allargò la zona di espansione fino a coprire quasi tutta la nuova, più vasta, area comunale (nel 1923 erano stati aggregati 11 comuni contermini aumentando la superficie da 76 a 185 kmq). Le previsioni di ampliamento del piano Albertini erano sorprendenti e del tutto dissennate: 10.000 ettari di nuova espansione, un incremento di 3.650.000 abitanti, una abnorme estensione del reticolo stradale che lottizzava minuziosamente ogni angolo del territorio.

Milano iniziò quindi ad ampliarsi secondo un modello di espansione uniforme che graverà per anni sugli sviluppi del capoluogo lombardo, diventando un imprinting che ha condizionato la pianificazione milanese fino almeno a tutto il XX secolo.

Conviene quindi chiedersi se il perpetuarsi nel tempo di tale modello abbia rappresentato un fatto positivo. Perché se uno sviluppo radiocentrico e uniforme attorno al centro poteva essere ragionevole per una città di 425.000 abitanti (1891), con un aumento previsto fino a 525.000 nell’arco di 25 anni, forse non lo era più per una città la cui popolazione era cresciuta in soli venti anni fino a 600.000 abitanti, che nel 1934 si avvicinava a 1 milione di abitanti e nel 1951 a 1,3 milioni.

Via Salvini, esito di una lottizzazione tra il 1923 e 1926. Sullo sfondo l'arco della casa di abitazione di Piero Portaluppi

Via Salvini, esito di una lottizzazione tra il 1923 e 1926. Sullo sfondo l’arco della casa di abitazione di Piero Portaluppi

Una risposta implicita a questo interrogativo ci viene suggerita dai risultati del Concorso per il nuovo piano regolatore del 1926-27, bandito dal commissario prefettizio Ernesto Belloni. Alcuni dei progetti presentati infatti affrontavano il problema di una diversa modalità di sviluppo, già sollevata da Cesare Chiodi, assessore all’urbanistica negli anni precedenti. Chiodi in un documento preparatorio formulava un’ipotesi policentrica limitando lo sviluppo dell’aggregato principale, per dar vita a quartieri satelliti dotati di servizi e «capaci di vita relativamente autonoma». Chiodi rassegnò le dimissioni nel novembre 1925 e nel 1926 fu varata la riforma degli enti locali che sopprimeva i consigli comunali e istituiva i podestà sanzionando la linea autoritaria.

Il concorso fu vinto da Portaluppi-Semenza con un progetto che, pur con qualche correttivo (in particolare la varietà delle tipologie urbane previste nelle diverse zone), riproponeva sostanzialmente il modello berutiano, modello che fu ancor più accentuato dal funzionario comunale l’arch. Cesare Albertini, incaricato della redazione del piano dopo il concorso, cancellando tutti gli elementi correttivi. Al contrario il progetto, secondo classificato, del Gruppo degli urbanisti milanesi in cui militavano tra gli altri Giuseppe De Finetti, Alberto Alpago Novello, Giovanni Muzio, Gio Ponti, proponeva di bloccare la crescita indifferenziata al limite esterno del piano precedente salvaguardando dei cunei di verde tra gli sviluppi radiali lungo le principali arterie regionali. Significativo anche il progetto, terzo classificato, del gruppo dello stesso Chiodi, che immaginava uno sviluppo articolato mediante nuclei esterni collegati al centro da una efficiente rete viaria e di trasporti.

Dopo la guerra: la ricostruzione e il boom economico (anni Cinquanta e Sessanta)

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’Italia e Milano si trovavano in una situazione drammatica: un quarto degli alloggi distrutto o inabitabile, molte aziende gravemente danneggiate, musei, come Brera, e biblioteche colpiti e da ricostruire. Tale situazione rappresentava però anche una preziosa opportunità per avviare la ricostruzione perseguendo nuovi indirizzi, legati agli ideali di libertà, equità e giustizia della Resistenza antifascista.

Nel 1945, a seguito del blocco del piano regolatore del 1934 da parte della giunta di solidarietà democratica (sindaco il socialista Antonio Greppi), fu bandito un concorso di idee per il nuovo piano regolatore in cui diversi progetti e su tutti il Piano AR (Architetti Riuniti che riuniva gli architetti di avanguardia milanesi: Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Ezio Cerutti, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, Giancarlo Palanti, Enrico Peresutti, Mario Pucci, Aldo Putelli, Ernesto Rogers) proposero modelli di sviluppo alternativo. Un vivace dibattito si svolse sulle proposte presentate in una serie di riunioni tenute dopo il concorso.

Nel piano AR la rottura del modello radiocentrico era ottenuta con il contenimento della popolazione residente a 850.000 abitanti, con il decentramento progressivo da Milano di un terzo dei posti di lavoro nell’industria, con uno sviluppo in quartieri dislocati all’esterno. Tale decentramento era sostenuto oltre che da un sistema di ferrovie e metropolitane, da due grandi assi attrezzati (autostrade urbane). All’incrocio dei due assi, a lato di corso Sempione, erano situati il nuovo Centro direzionale e la nuova Fiera, mentre gran parte del settore ovest era destinato a un grande parco urbano, costellato di attrezzature per lo sport e per spettacoli. A scala regionale l’assetto policentrico era fondato sulla valorizzazione dei centri urbani di media grandezza.

Il piano AR, pur non esente da contraddizioni (la realizzazione degli assi attrezzati, ad esempio, comportava degli sventramenti e avrebbe probabilmente aggravato la congestione del traffico), assunse un valore di icona in quanto illustrava con chiarezza il tentativo di avviare uno sviluppo che ribaltasse quello monocentrico praticato fino a quel momento. Va tenuto presente comunque che si trattava di un’idea progettuale da articolare poi in un programma tecnico più attendibile.

Alcuni dei principi che erano alla base del piano AR furono assunti dal piano Venanzi (dal nome dell’assessore all’urbanistica della prima giunta eletta dopo la guerra, sindaco ancora Greppi) che prevedeva una riduzione della superficie edificata e delle strade, estese indiscriminatamente dal piano del 1934.

Il piano introduceva inoltre la destinazione di ogni zona a una specifica funzione, seguendo la prassi della “zonizzazione” e, sempre sulla scia del dibattito svoltosi dopo il concorso, introduceva anche la salvaguardia di aree di verde agricolo e di verde pubblico e l’introduzione di servizi destinati alla popolazione residente, dimensionati sulla base di standard urbanistici.

Ma, dopo le elezioni amministrative del 1948 e l’insediamento di una giunta centrista, il piano Venanzi fu di fatto accantonato, svuotato da una prassi urbanistica del giorno per giorno, quella dei piani di ricostruzione. I piani di ricostruzione (sud nel 1949 e nord nel 1950), assai più permissivi in termini di volumetrie, vennero approvati nonostante fossero in conflitto col piano regolatore. Il piano venne quindi sottoposto a revisione recuperando le convenzioni precedentemente stipulate e attenuando i vincoli di zonizzazione. Venne così adottata nel 1950 una seconda versione che, dopo l’esame di molte osservazioni, venne approvata nel 1953. Tra le convenzioni reinserite quelle di corso Vittorio Emanuele, di piazza San Babila e degli sventramenti nella zona del Verziere. Tale prassi si consoliderà negli anni seguenti, durante i quali i piani particolareggiati piuttosto che essere strumenti di approfondimento delle linee del piano diverranno delle vere e proprie varianti al piano stesso.

In sostanza il PRG del 1953, pur introducendo nuovi strumenti come la zonizzazione e gli standard, non riuscì a scalfire il modello di sviluppo radiocentrico che era un dato ormai radicato nella pianificazione milanese e modificabile solo attraverso scelte e decisioni molto determinate e condivise, in grado di contrastare gli interessi dei costruttori e della rendita fondiaria. In particolare va considerata la posizione del Centro direzionale, che era scivolato tra la Stazione Centrale e porta Nuova, in un’area molto vicina al centro storico, in netto contrasto con i propositi di sviluppo decentrato. Sorgeranno qui alcuni dei primi grattacieli milanesi: il grattacielo Pirelli (Gio Ponti e soci e Giuseppe Valtolina, con Arturo Danusso e Pier Luigi Nervi per le strutture, 1955-60) e la torre Galfa (Melchiorre Bega, Luigi Antonietti, con Arturo Danusso, 1956-59), oltre alla torre Breda (Luigi Mattioni, Eugenio ed Ermenegildo Soncini, 1950-55) in via Vittor Pisani.

Torre Velasca dello studio Bbpr, 1951-1958

Torre Velasca dello studio Bbpr, 1951-1958

A poche centinaia di metri dal Duomo fu costruita invece la Torre Velasca (studio Bbpr, con Arturo Danusso, 1951-58). Il Grattacielo Pirelli e la Torre Velasca si giovavano entrambi di un’aura milanese, frutto della volontà dei progettisti di ambientare l’edificio, seppur con linguaggi diversi, tenendo presente la tradizione, mentre la Torre Breda e la Torre Galfa adottavano sistemi di costruzione seriale ed erano programmaticamente indifferenti al contesto. Tra gli edifici residenziali vanno ricordati per il loro rilevo, la Torre al Parco di Vico Magistretti e Franco Longoni (1953-56) e l’Edificio residenziale in corso Sempione di Piero Bottoni (1955-57). La costruzione di tanti quartieri esterni sollecitò la curia milanese ad avviare un piano per dotarli di nuove chiese negli anni seguenti.

Il piano AR prevedeva di destinare il Centro storico alle funzioni residenziali e culturali, liberandolo a poco a poco da quelle commerciali, direzionali e finanziarie. Ma il nuovo piano regolatore non disciplinava e indirizzava in alcun modo tali trasformazioni, lasciando anzi il centro in balia delle pressioni speculative e affidando il cambiamento alle sole norme del regolamento edilizio risalente al 1921.

Sotto la spinta di un incremento demografico molto forte (300.000 abitanti tra il 1951 e il 1961, con un incremento del 24%) e della favorevole congiuntura economica, si innescò quindi un imponente processo di rinnovamento e sostituzione dell’edilizia, incentivato anche da alcuni sventramenti: come il tratto via Borgogna-corso Europa-via Albricci, la cosiddetta “racchetta”, un’arteria ereditata dai piani precedenti e che avrebbe dovuto attraversare tutta la zona sud del centro storico e sfociare in via Vincenzo Monti (fortunatamente in seguito arrestata a piazza Missori, salvaguardando il quartiere delle cinque vie). Di fatto tutto ciò favoriva la naturale tendenza delle attività finanziarie, specialmente le piccole a situarsi nel centro rendendo problematico il decollo del Centro direzionale.

Il risultato di queste operazioni fu una densità edilizia che venne continuamente incrementata sia nel centro che nella fascia intermedia berutiana. Quest’ultima venne progressivamente saturata con poca attenzione al verde e ai servizi. Per quanto riguarda il verde due parchi erano previsti nel centro storico: il primo tra le basiliche di S. Lorenzo e S. Eustorgio e il secondo, che avrebbe dovuto sorgere nelle aree del Policlinico di cui era previsto lo spostamento altrove, non verrà mai realizzato. Nelle zone periferiche erano previsti a est il parco Forlanini e l’ampliamento del parco Lambro, a ovest il parco di Trenno. Nonostante tali parchi lo standard di verde per abitante rimase al di sotto di quello delle principali città europee.

Gli anni Settanta

Negli anni Settanta la storia di Milano registrò, per la prima volta, una inversione di tendenza nell’andamento della popolazione: al picco di 1,74 milioni nel 1974, seguì un calo continuo dei residenti che proseguì fino agli albori del nuovo secolo (2001: 1,25 milioni). Una tendenza che è cambiata solo negli ultimi 15 anni con una ripresa della crescita abbastanza contenuta fino a 1,35 milioni di abitanti nel 2016. Il calo fu determinato non solo da uno sbilancio tra il numero dei morti e quello dei nati, ma anche dai movimenti migratori degli abitanti verso i comuni dell’hinterland causati soprattutto dal costo degli alloggi e della vita in città.

In questi anni la popolazione non solo diminuì, ma cambiò anche la sua composizione: gli operai calarono dai 348 mila nel 1961 ai 279 mila del 1971 e ai 211 mila del 1981. Milano non era più una città dalla struttura produttiva prevalentemente industriale, il settore trainante diventò il terziario, mentre l’attività edilizia attraversava un periodo di stasi e il processo di urbanizzazione risentiva delle spinte verso la terziarizzazione. Accanto a questi dati vanno valutati anche i consistenti flussi di persone che non risiedono nel comune, ma che vi entrano ogni giorno per svolgere il loro lavoro.

La Variante generale del 1976/1980 (le date si riferiscono all’adozione del consiglio comunale e all’approvazione della Regione Lombardia), in verità un vero e proprio piano regolatore, prese atto solo parzialmente dei mutamenti in corso, riconfermando le destinazioni industriali previste dal piano precedente (pur limitando quelle nuove) e riducendo le previsioni di sviluppo terziario, che si pensava di esportare nell’area metropolitana. Quest’ultimo proposito, come si è già accennato, cozzò con la configurazione del parco delle attività, quasi tutte di piccola dimensione che tendevano a localizzarsi nel distretto finanziario centrale. Anche la costruzione, avviata nella seconda metà degli anni Sessanta, della prime due linee metropolitane, pur modificando sostanzialmente la rete dei trasposti milanesi e conferendole nuova efficienza, riconfermò il primato del centro storico e la struttura radiocentrica.

Altri obbiettivi della Variante erano la riqualificazione dell’edilizia esistente, la difesa della residenza popolare nelle aree centrali, il miglioramento dei servizi collettivi, il potenziamento della rete dei trasporti pubblici (in particolare con il “passante” ferroviario sotterraneo tra la stazione di porta Garibaldi e quella di porta Vittoria). Il piano delineava in modo coerente il sistema dei servizi, con un aumento della dotazione da 7,29 ai 24,15 mq per abitante. Il successivo piano dei trasporti del 1979 programmò la costruzione della terza linea metropolitana.

Negli anni Settanta furono i comuni esterni ad ospitare alcuni degli interventi architettonici più interessanti come il Terzo palazzo per gli uffici della SNAM a San Donato milanese (Franco Albini, Franca Helg, Marco Albini, Antonio Piva, 1971-74) e la sede della Mondadori a Segrate di Oscar Niemayer (1968-75). In città la nuova sede del Piccolo Teatro di Marco Zanuso (1979-1988) risentì di tutte le difficoltà nel finanziamento e nella gestione dei progetti pubblici, per cui il cantiere si prolungò per quasi venti anni dal momento della progettazione.

Il Piano Intercomunale Milanese

Gli effetti del boom economico si fecero sentire anche sui comuni dell’hinterland, coinvolti nella progressiva occupazione del territorio con edificazione a densità piuttosto alte e l’esportazione oltre i confini di Milano delle attività più deboli: «coree», artigianato e così via. Sull’onda delle sollecitazioni della cultura urbanistica a proposito della città-regione, venne quindi istituito il Piano Intercomunale Milanese (PIM) – una associazione volontaria tra 35 comuni ampliatasi a 97 nel 1968. Dopo l’identificazione delle linee programmatiche e degli obiettivi del PIM furono delineati i primi schemi di Piano intercomunale. La prima proposta degli architetti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori e Alessandro Tutino – delineava un modello a turbina che tra le pale della turbina salvaguardava consistenti spazi di verde. il piano individuava inoltre tre livelli territoriali: il capoluogo con l’immediato intorno, le aggregazioni intermedie e i poli esterni. L’Assemblea dei sindaci formulò una critica al progetto che riguardava la necessità di intendere il Piano non come uno schema geometrico, ma come un processo articolato. Nel contempo fu avanzata una seconda proposta: lo sviluppo lineare della città – degli architetti Marco Bacigalupo e Ugo Ratti – in grado di consentire uno sfruttamento intensivo delle strutture di trasporto. Le due alternative, quella della turbina e quella dello sviluppo lineare, risultarono inconciliabili e non sfociarono mai nella formazione di un vero e proprio Piano Intercomunale.

Nonostante, quindi, il PIM abbia in seguito assunto il ruolo di centro studi, ad esso vanno riconosciuti alcuni meriti tra cui: il disegno dei sistemi dei grandi parchi metropolitani (Parco Nord, Parco delle Groane, Parco di Monza, Parco della Valle del Lambro e Parco Agricolo Sud); l’idea di un servizio ferroviario regionale unitario, integrato e passante e le proposte di un nuovo sistema autostradale tangenziale, della Pedemontana e della Gronda Intermedia. Bisogna riconoscere al PIM anche di aver contribuito all’avanzamento dello statuto della disciplina urbanistica in Italia, mediante il tentativo pionieristico di indagare la pianificazione sovracomunale.

Gli anni Ottanta

La variante generale del PRG fu ben presto accantonata, in base a considerazioni di presunta flessibilità, a favore di una serie di programmi e documenti scarsamente coordinati in una visione d’insieme, di provvedimenti settoriali che determinarono una grave deregulation urbanistica nella pianificazione comunale.

Si susseguirono quindi il Progetto casa nel 1982, il Documento Direttore del Progetto Passante nel 1984 e il Documento Direttore per le Aree Industriali Dismesse nel 1989. Tra questi il documento più incisivo era quello che riguardava il passante, che pur essendo un documento d’indirizzo e quindi non soggetto alle normali procedure di approvazione dei piani urbanistici (pubblicazione, osservazioni, controdeduzioni) ha assunto i caratteri di un vero e proprio piano. Insieme ai Progetti d’area che lo accompagnavano il Documento Direttore del Progetto Passante mise in atto un ribaltamento delle procedure urbanistiche con la presa d’atto, attraverso varianti, di accordi preventivamente stipulati tra il comune e i privati. Il PRG diventa quindi sempre più marginale «un male necessario … perché previsto dalla legge ma di cui si potrebbe benissimo fare a meno» (Oliva, 2002). Il risultato più importante del Documento Direttore fu il passante ferroviario una linea di 13 km tra Bovisa e Rogoredo che realizzò l’integrazione di diversi servizi in un sistema regionale unitamente alla rete della metropolitana. Insieme con il secondo Documento Direttore quello per le aree industriali dismesse sembra delinearsi, per la prima volta dopo molti anni, una riorganizzazione policentrica del sistema degli insediamenti, con lo scopo di alleggerire e contrastare la persistente pressione sul centro.

Negli anni Ottanta si accentuò il fenomeno del decentramento produttivo, già apparso nel periodo precedente, una deindustrializzazione ormai inarrestabile che fece emergere con evidenza il nodo della progettazione delle aree industriali dismesse. Si trattava di circa sette milioni di metri quadrati del territorio comunale, una opportunità unica per affrontare il ridisegno urbano di Milano. Opportunità che fu praticata solo in parte per l’assenza di un coordinamento e di una visione d’insieme dei destini della città: ogni progetto d’area venne infatti affrontato isolatamente.

Nel 1985 la Pirelli avviò, con un concorso internazionale a inviti, la prima riconversione dell’area dismessa di sua proprietà a Bicocca, il “Progetto Bicocca”. Il concorso si concluse con la vittoria del progetto dello Studio Gregotti Associati, sulle cui caratteristiche urbanistiche e architettoniche si tornerà più avanti.

Alla fine degli anni Ottanta (1987) iniziarono anche i lavori, conclusi dieci anni dopo, per l’ampliamento della Fiera di Milano, nell’area ex Alfa Romeo del Portello. L’edificio di Mario Bellini, sviluppato per ben 700 m lungo viale Scarampo, si annuncia a chi proviene dalle autostrade con uno sconcertante enorme timpano metallico.

La scelta di ampliare la Fiera in una zona semicentrale, in continuità con il recinto preesistente, risultò poco lungimirante: solo tre anni dopo la conclusione dei lavori (2000) infatti verranno iniziati i lavori del nuovo Polo Fieristico, finalmente spostato fuori dal comune di Milano a Rho-Pero.

Da ricordare in questi anni sono anche le Stazioni del Passante ferroviario (1982-98), in cui Angelo Mangiarotti approfondì con coerenza la sua ricerca estetica e tecnologica, la Stazione di Lambrate di Ignazio e Jacopo Gardella (1983-99), ricca di memorie loosiane, il Quinto Palazzo per uffici ENI di Gabetti & Isola (1985-91) che anticipò la stagione dell’ecosostenibilità mediante serre incluse nell’intercapedine delle facciate e terrazzi pensili sui tetti digradanti.

Gli anni Novanta e l’inizio del secolo XXI

Il trend emerso nei decenni precedenti non subisce sostanziali modificazioni negli anni Novanta e con l’inizio del nuovo secolo: le amministrazioni comunali milanesi continuano a considerare il piano regolatore uno strumento obsoleto e a intervenire con altri mezzi, soprattutto con le varianti. Significativo a questo proposito è il Documento di Inquadramento per le Politiche Urbanistiche «Ricostruire la Grande Milano» del 2000, che sottolinea l’inadeguatezza del piano regolatore per affrontare le trasformazioni urbane in atto e propone di procedere attraverso norme più flessibili. In particolare, in base alla Legge 179/92 della Regione Lombardia, introduce i Piani Integrati di Intervento (PII), che hanno la peculiarità di diventare una variante immediata del PRG.

Il Documento è incentrato su due elementi portanti dell’organizzazione urbana e metropolitana: la direttrice collegante gli aeroporti di Malpensa e Linate, seguendo il percorso del passante ferroviario da nord-ovest a sud-est e la direttrice verso Monza, perpendicolare alla precedente, che delineano una T rovesciata e leggermente inclinata verso est. Questo schema sostituisce la visione policentrica del Documento Direttore del 1989, reintroducendo la centralità del capoluogo.

Nella seconda metà degli anni Novanta vengono individuati numerosi ambiti di trasformazione strategica, che per lo più coincidono con i progetti d’area degli anni Ottanta. Diverse di queste trasformazioni verranno realizzate nel corso del decennio successivo, rinnovando profondamente il paesaggio e l’immagine urbana di Milano: l’area di Porta Nuova (Garibaldi-Repubblica), il già citato Quartiere Bicocca sulle aree ex Pirelli, le aree ex Montecity a est della stazione di Rogoredo, l’area ex Tibb a piazzale Corvetto, l’area ex OM a sud di viale Toscana in fregio al parco Ravizza, l’ampliamento della Fiera sulle aree ex Alfa Romeo al Portello.

Vanno inoltre ricordati i nuovi campus universitari del Politecnico a Bovisa, della seconda Università Statale nel Quartiere Bicocca, della Bocconi nelle aree attorno alla sede storica di via Sarfatti e le nuove strutture museali ed espositive: la Fondazione Prada in piazza Isarco, oltre piazzale Lodi, il Museo delle Culture ed altre strutture espositive nella zona a ovest della stazione di porta Genova tra via Tortona e via Savona.

Il nuovo Polo fieristico (2000-13) collocato finalmente oltre il confine comunale, lungo la strada del Sempione nel comune di Rho è un esempio di decentramento di una struttura di servizio di notevole peso. Il polo è rafforzato dalla contigua presenza, sul confine del territorio comunale, dell’area dove si è svolta EXPO 2015. Tale area è in corso di riutilizzazione con la creazione di un centro di ricerca di eccellenza Human Technopole, sostenuto dal governo, dove dovrebbero arrivare ricercatori da tutto il mondo. Nella medesima area si localizzeranno anche il campus universitario dell’Università Statale, che vi trasferirà le proprie facoltà scientifiche, e l’ospedale Galeazzi. Un altro esempio di creazione di un polo metropolitano esterno è la struttura commerciale di Milano Fiori con accanto il Forum di Assago, collegata a Milano da un prolungamento della linea metropolitana.

L’area di Porta Nuova, costituita dai tre quartieri di Garibaldi-Repubblica, Isola ed ex-Varesine – oggetto di reiterate proposte a partire dal piano particolareggiato per il Centro Direzionale del 1955 – è decollata solo nel 2000 dopo l’inserimento nel Documento «Ricostruire la Grande Milano». La pianificazione urbanistica dei tre quartieri è stata affidata a studi di progettazione diversi, privilegiando l’espressività architettonica individuale, piuttosto che una visione unitaria. Attorno al piccolo parco, denominato Biblioteca delle piante, situato tra viale don Sturzo e via Melchiorre Gioia, sorgono: il grattacielo della Sede Unicredit, le torri Bosco Verticale, le torri Aria e Solaria, la torre Diamante e, poco più a nord, la Nuova sede della Regione Lombardia, oltre alle torri preesistenti delle ferrovie e dei servizi tecnici comunali. Sono tutti edifici di ragguardevole altezza (e volumetria), i cui progetti sono stati concepiti principalmente secondo criteri di redditività immobiliare con un’imposizione, piuttosto che un dialogo con i tessuti storici preesistenti e senza preoccuparsi dei rapporti reciproci. La piazza Gae Aulenti si trova sotto il grattacielo Unicredit che la lambisce e, insieme ad altri tre edifici di altezza digradante, ne definisce il profilo circolare. Le scelte architettoniche sono conformate ad un generico internazionalismo (proprio in Milano, dove i primi grattacieli furono ammirati per la loro capacità di dialogare con il contesto); fa eccezione l’edificio situato a sud-est (Piuarch, 2006-2013) con un proprio rigoroso linguaggio memore della ricerca miesana. L’invaso della piazza, elevato sopra un basamento, contenente parcheggi e una zona commerciale – pur lontano dalle prerogative delle antiche piazze italiane – possiede una sua caratterizzazione e fruibilità a cui contribuiscono il trattamento delle superfici con acqua e giochi d’acqua.

Non lontano, in viale Pasubio presso Porta Volta, sorge la sede della Fondazione Feltrinelli (Herzog e De Meuron 2008-2013) che, insieme all’Ampliamento della sede dell’Università Bocconi (Grafton Architects, 2002-08) in via Rӧntgen presso porta Ticinese, reputo uno degli esempi più interessanti dell’ultima stagione architettonica a Milano. La prima si immette sapientemente nella zona riprendendo le giaciture delle mura spagnole, la seconda, pur con una volumetria articolata, rispetta i tracciati stradali e dialoga con le preesistenze grazie al rivestimento di ceppo grigio, assai comune nell’edilizia tradizionale milanese. L’università Bocconi ha recentemente ampliato il campus verso sud con un gruppo di edifici dello studio giapponese SANAA (2013-2020): completamente vetrati, con profili sinuosi, essi si pongono invece in completa autonomia per forme e materiali rispetto al contesto circostante. Tuttavia l’intervento crea un rapporto con la città mediante la presenza di alcune attrezzature: oltre a spazi per la didattica, infatti, esso comprende un parco pubblico, una grande piscina e una palestra aperte agli utenti esterni.

Dall’inizio del 2015 il fondo sovrano del Quatar è diventato il proprietario unico dell’area di Porta Nuova, salendo dal 40 al 100%. È indubbio quindi che sia in corso una colonizzazione, non solo economica, ma anche culturale per quanto riguarda il disegno degli spazi e degli edifici, affidato quasi sempre a architetti stranieri, archistar, che soli si ritiene siano in grado di garantire quell’appeal superficiale che assicura la funzione pubblicitaria troppo spesso ormai assegnata all’architettura.

CityLife, Milano. In primo piano gli edifici residenziali dello Studio Daniel Libeskind (2010-2013), in secondo piano la torre di Zaha Hadid Architects (2010-2018)

CityLife, Milano. In primo piano gli edifici residenziali dello Studio Daniel Libeskind (2010-2013), in secondo piano la torre di Zaha Hadid Architects (2010-2018)

Osservazioni analoghe si possono fare per il progetto Citylife – sui terreni della vecchia Fiera Campionaria, spostata a Rho – dove il paesaggio risulta molto «americano» e dove ritroviamo gli stessi principi di intervento dettati da motivazioni economiche internazionali e di immagine dal forte impatto. La piazza Tre torri, focus dell’intervento, è uno spazio di risulta, incassato, dominato dai tre elementi verticali – opera rispettivamente degli architetti Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Arata Isozaki- che assumono così una imponenza, se possibile maggiore, sminuendo la presenza umana e svalutando il ruolo della piazza quale luogo di aggregazione di abitanti e visitatori. Tuttavia le scelte architettoniche, specialmente della torre opera di Zaha Hadid (2010-18), sede delle Assicurazioni Generali, sono convincenti. La torre, con il suo volume in torsione è l’espressione di una raffinata ricerca ad un tempo plastica e strutturale, che qualifica il paesaggio urbano circostante. Manca pur sempre un riferimento al contesto, ma perlomeno l’edificio raggiunge una elevata qualità estetica, peccato che il cappello pubblicitario ne abbia molto attenuato lo slancio ascensionale che sfumava nel cielo.

Il quartiere della Bicocca, realizzato sulla base di un piano urbanistico dello studio Gregotti e Associati ha il merito di realizzare una notevole unità di volumetrie e di altezze, un ordine urbano altrove assente. Quindi, nonostante parecchi partiti architettonici siano spesso schematici, l’esecuzione non di livello elevato e manchino ancora alcuni servizi, si può sperare che, alla fine, la zona possa conseguire una soddisfacente qualità urbana.

Il Piano di Governo del Territorio (2012-2019)

Il Piano di Governo del Territorio (PGT) viene introdotto dalla Regione Lombardia nel 2005 (LR 12 -11/03/2005), con lo scopo di sostituire il Piano Regolatore Generale per la pianificazione urbanistica a livello comunale.

Il comune di Milano avvia il processo di preparazione del PGT a fine giugno 2005 e nel 2008 viene istituito l’Ufficio di Piano. Il nuovo PGT di Milano (che dovrebbe guidare tutte le prossime scelte di trasformazione urbana fino al 2030) viene approvato coi voti della sola maggioranza ed è vigente dal 21 novembre 2012. Il piano sembra propendere ancora una volta a un approccio che concede ampio spazio al mercato e agli operatori privati, affidando gran parte delle scelte alla fase attuativa, senza costituire un più auspicabile strumento di indirizzo e controllo del territorio, che aiuti a conformare lo sviluppo successivo della città e dell’hinterland arrestando la storica crescita a macchia d’olio.

In questo quadro il recupero delle aree dismesse degli scali ferroviari costituisce un’occasione imperdibile per la riqualificazione complessiva della città. Si tratta di concepire interventi di rammendo dei tessuti esistenti avendo presenti le esigenze delle comunità e cercando, con costante sensibilità, di realizzare un’architettura e una città “umanistica”.

Concludendo va rimarcato come uno dei limiti principali della pianificazione milanese sia consistito nella reiterata difficoltà ad approntare un piano per l’area metropolitana. Ancora oggi, qualche anno dopo l’istituzione della Città metropolitana, che ha sostituito la Provincia nel 2015, il piano per l’area stenta a decollare. Infatti il Piano Territoriale Metropolitano, adottato il 29 luglio 2020, è stato reso meno efficace cancellando o ridimensionando alcuni degli strumenti necessari per attuarlo rimandandoli alla redazione di un nuovo documento denominato Strategie Tematico Territoriali Metropolitane che certamente richiederà qualche anno per essere elaborato e approvato. Ci si augura quindi che le amministrazioni responsabili del processo progettuale, pur nella proposizione democratica e partecipata delle iniziative, si facciano garanti di uno sviluppo che rientri in uno studio più generale di pianificazione urbana e territoriale. Se si sarà in grado di cogliere le opportunità che l’evoluzione stessa del territorio offre, si aprirà una grande speranza per una Milano più accogliente e vivibile.

Ringrazio l’arch. Licia Anna Caspani che ha pazientemente riletto e corretto il testo ed ha collaborato, con la consueta attenzione, alla predisposizione delle illustrazioni.

Bibliografia

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