Il lavoro a Milano dall’Unità al Ventunesimo secolo

di Stefano Agnoletto

L’offerta lavorativa è sempre stata tra le principali attrattive di Milano. Un’offerta che cambia e si trasforma rapidamente a partire dalla seconda metà del Ottocento, quando vengono poste le basi per il decollo industriale che prenderà corpo a partire dall’ultimo decennio del secolo.
La fisionomia di Milano resterà lungamente caratterizzata dalla sua evoluzione industriale, scandita da alcuni momenti cruciali: la prima e la seconda guerra mondiale, la Ricostruzione e gli anni del conflitto sociale, che hanno modificato il mondo del lavoro e insieme il volto della città.
Lungo tutto il Novecento il mercato del lavoro milanese appare segmentato e non omogeneo. Si conferma infatti la tradizionale presenza delle reti di piccole fabbriche e aziende che si affiancano e sopravvivono all’invasività delle grandi industrie taylofordiste, sia come realtà dotate di propria autonomia, sia nella forma dell’indotto.
La crisi delle industrie manifatturiere e la crescita del terziario e del settore dei servizi a partire dagli anni Settanta ha dato origine ad ulteriori cambiamenti nel mondo del lavoro, senza tuttavia determinare la scomparsa di fenomeni di sfruttamento e di debolezza sociale.

Dall’Unità alla Seconda Guerra Mondiale

Il mondo del lavoro milanese al momento dell’Unità è una realtà complessa, caratterizzata dalla copresenza e sovrapposizione di fenomeni antichi e moderni, una commistione che caratterizzerà in modo strutturale e continuativo la realtà locale anche nei decenni seguenti e lungo tutto il Novecento. Come ha evidenziato Franco della Peruta, nei decenni che precedono l’Unificazione, accanto al permanere di diffusi fenomeni di lavoro a domicilio, si segnala la presenza di una fitta rete di botteghe artigiane, di piccoli e medi opifici e anche il sorgere di alcuni siti produttivi di medie-grandi dimensioni, segnali premonitori del decollo industriale che investirà il capoluogo lombardo solo alcuni decenni più tardi (Della Peruta, 1987, 51-52).
Il lavoro a domicilio su commissione, diffuso tra gli strati più poveri delle popolazione, occupa in particolare manodopera femminile ed è concentrato nei settori della confezione e dell’abbigliamento, con le migliaia di cucitrici, sarte o ricamatrici, la cui attività rappresenta un indispensabile flusso di reddito per la sopravvivenza familiare:
“il complemento del guadagno giornaliero di quelle delle famiglie del povero, la cui madre, trattenuta a in casa dalle faccende domestiche, non può cercare che a questo genere di lavori la sua parte del contributo coniugale” (Carlo Tenca, 1853, p. 200)
La produzione diffusa prende anche la forma delle centinaia di piccole aziende attive nei cortili e nelle case milanesi: migliaia di lavoratori sono impegnati nella fabbricazione di carrozze (più di 2000 addetti a metà Ottocento), in laboratori di oreficeria, nelle tipografie (più di mille addetti), in laboratori di lavorazione della pelle (circa 700 addetti) o di fabbricazione di cappelli. Della Peruta ricorda come a metà Ottocento un ruolo importante è ancora giocato dalla tradizionale industria della tessitura serica, con 3000 addetti, quasi tutti uomini, che fanno battere circa 1900 telai, alcuni locati nelle case dei lavoranti, altri in piccoli opifici (Della Peruta, 1987, 52-53).
A fianco di questa rete diffusa di attività nelle vie e nelle case milanesi, a metà del XIX secolo Milano ospita anche alcuni importanti siti produttivi che concentrano quantità elevate di manodopera e dove iniziano a manifestarsi alcune caratteristiche tipiche dell’industria moderna, combinazione di innovazione tecnologica, difficili condizioni di lavoro, manodopera infantile e paternalismo. Un esempio paradigmatico è il bottonificio Binda che nel 1858 occupa 600 addetti, in maggioranza donne e bambini, impiegati in una realtà lavorativa “moderna” dove sono presenti macchine all’avanguardia, e un modello “industriale” di divisione del lavoro (Della Peruta, 1987, 54). Un altro esempio di produzione accentrata è l’Imperial Regia Fabbrica dei Tabacchi con “l’immenso camerone” dove sono concentrate quasi mille operaie “per lo più fresche di età” (“Il Fotografo”, 6 febbraio 1858). Un terzo esempio è l’azienda “Gondrona” che produce vagoni ferroviari e nel 1851 impiega 160 operai in officine “così vaste che nella loro larghezza comprendono armature di travi lunghe 23 braccia” (Saggi sull’industria lombarda, 1851). Un quarto esempio significativo è rappresentato dall’azienda di Giulio Richard, specializzata nella produzione di porcellane, con circa 300 dipendenti e una serie di iniziative assistenziali per i propri lavoratori, come una cassa mutua e alloggi nei pressi dello stabilimento, che ne fanno un tipico precursore del paternalismo industriale italiano (Caizzi, 1972, 269-271).
Nonostante la presenza di queste significative esperienze di produzione accentrata di dimensioni significative, anche nei decenni dopo l’Unità la maggior parte dei luoghi di lavoro milanesi sono realtà manifatturiere semi-artigianali, con organigrammi aziendali ridotti, in cui le maestranze rispondono solo al proprietario o a pochi collaboratori stipendiati (Maifreda, 2006, 25). Cesare Saldini così ha descritto l’imprenditore “tipico” alla guida di queste realtà aziendali:
Dal suo ripostiglio domina le sue macchine e ne conosce lo stridore amico, pesa ed apprezza al giusto valore gli operai, sa cosa gli costa ogni cosa ed in tal modo riesce a trarre dalle sue scarse risorse il massimo del rendimento (cit. in Maifreda, 2006, 25).
Il Censimento del 1881 ci offre una fotografia, seppur approssimativa, del mondo del lavoro milanese. I dati censuari individuano 110.000 persone occupate nella “produzione industriale”, di cui 15.00 sono definiti “padroni” e 95.000 “operai” (Comune di Milano, 1881). La maggior parte di questi operai non lavorano in aziende di grandi dimensioni, ma sono impiegati in una miriade di piccole e piccolissime imprese operanti nei settori più diversi, e tra loro vi sono i molti muratori o manovali che spesso lavorano su commissione, oppure anche garzoni, camerieri o commessi occupati nei settori della ristorazione o del commercio, o vi sono anche fabbri, calzolai, falegnami o altre figure impiegate nel mondo dell’artigianato. Due gruppi significativi di lavoratori individuati dal Censimento del 1881 sono i 21.000 che lavorano come personale di servizio, (camerieri, domestici, portinai eccetera) e gli 8.0000 addetti ai trasporti e si servizi postali e telefonici.
Questi dati confermano che nel 1881 il decollo industriale milanese non ha ancora preso le forme della grande industria, ma è soprattutto caratterizzato da quella che Colombo ha definito “un industria di dettaglio”(Colombo, 1881, 59), dominata da laboratori e stabilimenti di piccole dimensioni.
Al principio del decennio seguente, nel 1892, l’inchiesta industriale di Leopoldo Sabbatini evidenzia una crescita significativa della presenza della fabbrica di medio-grande dimensione nella realtà milanese (Sabbatini, 1893). In particolare, si segnala la presenza di almeno 25 opifici con più di 250 dipendenti (Hunecke, 1982, 190-193). Cambia anche la specializzazione settoriale dell’industria milanese: il settore meccanico si impone come quello trainante con più di 11.000 impiegati nel 1891 (Bigazzi,1987) avendo superato il tradizionale settore tessile che conta 9000 dipendenti, per la maggior parte donne (Sabbatini, 1893, 410), seguito dall’industria poligrafica con 3674 dipendenti e dall’industria chimica con 3500 lavoratori (Della Peruta, 1987, 67-69).
Della Peruta ha evidenziato come con gli anni Novanta del XIX secolo la fabbrica capitalista di medie-grandi dimensioni è ormai una presenza diffusa a Milano e con essa il proletariato industriale diventa uno dei protagonisti della realtà sociale locale. Al contempo si afferma in modo evidente quella struttura dualistica della realtà produttiva milanese dove le medie e grandi aziende produttive convivono con la realtà diffusa delle piccole aziende e dei laboratori artigianali, del lavoro a domicilio, dei 10.000 occupati nell’edilizia, dei servizi (Della Peruta, 1987, 71-72).
Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la prima guerra mondiale Milano consolida il suo ruolo egemonico nel panorama economico italiano e gioca un ruolo da protagonista nel decollo industriale e questo si riflette in alcune trasformazioni strutturali del mercato del lavoro locale. Il dato più eclatante è rappresentato dall’imporsi dell’industria metalmeccanica come il settore trainante Secondo il Censimento del 1911 in questo settore sono occupati 40.000 operai, ai quali si affiancano circa 6500 addetti nel settore chimico e circa 5500 impegnati nella produzione di forza motrice, luce, acqua e calore. Al contrario rimangono stazionari i dati relativi a settori tradizionali come l’industria tessile, del vestiario o del legno. La struttura dualistica rimane comunque un fattore che caratterizza il mercato del lavoro locale: ad esempio, nel 1911 gli addetti ai servizi della persona sono circa 29.000.
Alcune imprese giocano un ruolo da protagonisti in questi decenni di decollo industriale della realtà milanese. Tra queste si possono ricordare la Marelli con 1500 dipendenti nel 1914, la Falk che rappresenta l’avanguardia della siderurgia milanese con 2400 dipendenti nello stesso anno e infine la Breda specializzata nella produzione di locomotive, vagoni ferroviari, macchine agricole e pezzi d’artiglieria che nel 1913 conta 2200 addetti (Maifreda, 2006, 39).

Veduta della fabbrica di articoli concianti “Gaetano Raimondi & C.” in una immagine anteriore al

Veduta della fabbrica di articoli concianti “Gaetano Raimondi & C.” in una immagine anteriore al 1911 (Civico Archivio Fotografico, Milano)

L’imporsi della grande fabbrica si accompagna all’esplodere dei conflitti sociali e di classe, soprattutto nel biennio 1912-1913. A Milano tali agitazioni interessano in particolare il settore automobilistico (Isotta Fraschini, Edoardo Bianchi e Alfa) e le fabbriche per la costruzione di materiale ferroviario (Miani e Silvestri, Stigler, Breda). Questi conflitti segnalano l’entrata come protagonista del conflitto sociale di fabbrica nella storia milanese e la grande novità è che esso, a differenza degli scioperi che già avevano caratterizzato la Milano di fine Ottocento e primo Novecento, si origina nei settori più dinamici dell’economia locale (Pepe, 1978).
La prima guerra mondiale rappresenta un passaggio fondamentale per la storia del lavoro a Milano. In particolare, con essa si ha un ingresso massiccio di manodopera non specificamente formata nella produzione industriale, soprattutto contadini e donne (Maifreda, 2006, 49-50). Le necessità belliche e la nuova composizione della manodopera sono all’origine in molte fabbriche di processi di riorganizzazione aziendale che favoriscono modelli di organizzazione produttiva centralizzata e razionalizzata, che significa anche parcellizzazione del processo di fabbricazione, standardizzazione dei prodotti e specializzazione dei macchinari in una prospettiva taylo-fordista
Queste sollecitudini, manifestatesi durante la prima guerra mondiale, permangono negli anni Venti e Trenta quando alcune grandi aziende milanesi si pongono all’avanguardia di esperienze di “americanizzazione” della produzione. Un esempio paradigmatico è la Magneti Marelli fondata nel 1919 a Sesto San Giovanni da Ercole Marelli e dalla Fiat, che passa dagli originari 200 dipendenti a 7000 nel 1938. Specializzata nella produzione di magneti destinati all’aviazione e di motori a scoppio  automobilistici e motociclistici, utilizza fin dalle origini la linea di montaggio e i nastri trasportatori. Nel 1925 è l’unica azienda italiana, insieme alla Fiat, ad avere linee di montaggio meccanizzate sul modello fordista e alla viglia della seconda guerra mondiale lo spostamento fisico dei materiali e dei semilavorati è quasi completamente automatizzato (Maifreda, 2006, 56).
Esperienze come quella della Magneti Marelli convivono a Milano tra le due guerre con realtà di lavoro industriale che scelgono altre vie rispetto all’applicazione sistematica del modello taylo-fordista. Ad esempio vi è il caso significativo dell’Alfa Romeo, che sceglie la via della produzione per una nicchia di mercato di qualità, E’ un modello di organizzazione del lavoro fondato sulla presenza di personale operaio altamente qualificato che porta a tralasciare la produzione di massa a favore di uno sviluppo tecnologico di prodotto, che valorizza la discrezionalità operativa dei lavoratori (Maifreda, 2006, 60).
Se negli anni Venti e Trenta comunque si segnala un incremento del lavoro industriale nei settori trainanti della modernizzazione tipica della seconda rivoluzione industriale, primo fra tutti il settore meccanico con quasi 130.000 dipendenti a fine anni Trenta (Pizzorni, 2006, 292), permangono però i dualismi tipici del mercato del lavoro milanese. Nel 1932 i diversi rami del comparto tessile rappresentano ancora il secondo settore industriale, dopo il meccanico, seguiti dall’edilizia, dalla chimica, dall’abbigliamento e dalla gomma (Pizzorni, 2006, 291).

Operai sterratori, 1926

Operai sterratori, 1926 (Civico Archivio Fotografico, Milano)

Dalla Ricostruzione all’Autunno Caldo

La Milano del lavoro negli anni Cinquanta e Sessanta è una realtà complessa, stratificata e disomogenea, la cui descrizione ha dato vita a narrazioni contraddittorie, se non contrapposte, spesso fondate su categorie totalizzanti (Agnoletto, 2016). In questi decenni Milano è la città delle fabbriche, dell’innovazione, del Miracolo Economico, la “capitale economica” dell’Italia post bellica, uno spazio segnato del trionfo industrialista e dal diffondersi dell’emergente consumo di massa. La stessa città è anche un luogo dove si esplicitano drammatici fenomeni di sfruttamento e di esclusione sociale, che spesso producono un indotto di conflitto classista diffuso.
La complessità del quadro è anche il riflesso di un mercato del lavoro segmentato e non omogeneo. Si conferma la tradizionale presenza delle reti di piccole fabbriche e aziende che si affiancano e sopravvivono all’invasività delle grandi industrie taylofordiste, sia come realtà dotate di propria autonomia, sia nella forma dell’indotto. Una domanda di lavoro che viene sollecitata anche dall’approdo di una marea immigratoria simbolo di speranza nel futuro, ma al contempo portatrice di tante tragedie e contraddizioni. Milano accoglie dando a tantissimi un lavoro che altrove non si trova, offrendo occasioni di mobilità sociale e l’opportunità di poter progettare un futuro per sé e le proprie reti familiari oltre la risposta all’urgenza della sopravvivenza e spesso rappresenta la fuoriuscita dal circolo vizioso della miseria rurale che caratterizza molte campagne italiane in quei decenni. Al contempo, l’entrata nel mercato del lavoro milanese, e l’esperienza di vivere un processo di proletarizzazione urbana, per molti significa sperimentare drammatiche condizioni di lavoro e di vita. La Milano del Miracolo è il luogo dove convivono l’impressione, fondata su dati di realtà, che ci fossero infinite opportunità per tutti, ma dove quotidianamente si evidenziano diffusi fenomeni di clamoroso degrado sociale, che apparivano come caratteristica strutturale, non marginale o residuale, di un processo di crescita tumultuosa e di modernizzazione di cui la città era l’avanguardia (Agnoletto, 2016).
L’appellativo di “capitale economica” trova una sua facile giustificazione in alcuni dati quantitativi che sintetizzano il ruolo di traino giocato da Milano durante il cosiddetto Miracolo Economico italiano. Tra il 1951 ed il 1961 l’occupazione a Milano aumenta del 54%, passando da 545.967 lavoratori a 841.357. Nel 1963 101 delle 200 maggiori società italiane per fatturato avevano sede a Milano (Guiotto, 1986, 42), mentre nel 1959 si registra un tasso di disoccupazione inferiore al 3% (Pizzorni, 2006, 328). Nel 1961, nella cosiddetta “regione economica” di Milano si concentra il 18,7% dei salariati italiani (Dalmasso, 1972, 320). Tra il 1961 e il 1971 gli addetti all’industria manifatturiera milanese passano dai 427.403 a 818.488 a livello provinciale (Maifreda, 2006, 118). Il numero di imprese iscritte alla Camera di Commercio di Milano cresce dalle 189.956 nel 1950 alle 343.062 nel 1969 (Pizzorni, 2006, 326-327). Nel 1961 a Milano si concentra il 10% della forza lavoro nazionale nell’industria manifatturiera (Guiotto, 1986, 58).

Operai impegnati nella copertura del fiume Olona a ridosso del quartiere QT8

Operai impegnati nella copertura del fiume Olona a ridosso del quartiere QT8, 1962 (Fondazione ISEC, Sesto San Giovanni)

La forza attrattiva di Milano, come fulcro trainante del miracolo italiano, è testimoniata dall’impressionante flusso migratorio in entrata di cui la città fu protagonista: tra il 1951 ed il 1961 si registrano complessivamente circa 300.000 arrivi (Bigatti, 2011, 14). Anche il decennio seguente registra un arrivo massiccio che non scende mai sotto le 40.000 unità annue, anche se iniziavano a farsi sentire i segnali del rallentamento dei meccanismi del Miracolo, così si registra che tra il 1964 ed il 1967 il numero di emigranti è prevalente rispetto a quello degli immigrati (Pizzorni, 2006, 302-304). Il bilancio demografico del ventennio 1951-1971 descrive comunque una città in forte espansione: la popolazione cresce di oltre 450.000 unità, passando da 1.257.726 a 1.733.490 abitanti. Tali incrementi appaiono ancora più significativi se si fa riferimento alla provincia di Milano nel suo insieme: nello stesso periodo di tempo i residenti passano da 2.505.153 a 3.903.685 (Bigatti, 2011, 14).
Da un punto di vista aziendalistico, l’arrivo in massa di una forza lavoro poco scolarizzata rappresenta una opportunità soprattutto per tutte quelle aziende impegnate nella produzione in serie e che appaiono sempre più orientate all’applicazione di modelli taylofordisti. Il lavoro non specializzato rappresenta per queste imprese un fattore di produzione fondamentale per supportare la crescita aziendale. Si sviluppa così un circolo virtuoso (o vizioso?) tra la Milano delle grandi fabbriche e la nuova forza lavoro. La città diviene l’esempio più eclatante in Italia di quella fabbrica fondata sul lavoro dell’operaio comune, di terza categoria (Musso, 1993) la cui mancanza di qualità del proprio lavoro operaio diviene, nelle parole di Giuseppe Berta, la nuova e collettiva specializzazione della forza lavoro (Berta, 1978, 1122).
Le trasformazioni tecnologiche che investono l’industria milanese tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta rappresentano il contesto produttivo a cui ben si adattava questa nuova forza lavoro in entrata sul mercato urbano. Essi rappresentano un fenomeno intersettoriale, che investe tutti i principali comparti industriali: alimentare, chimico, siderurgico e meccanico (Vignati, 1986, 185-188). Gli esempi sono molteplici: dai nastri trasportatori e le impastatrici automatiche alla Motta, ai treni di laminazione automatizzati alla Redaelli, così come era automatizzato il complesso “pesatura e mescolanza” della gomma alla Pirelli, fino ai complessi processi innovativi alle officine Borletti, risultato combinato di nuovi macchinari, nastri trasportatori e catene di montaggio. La Borletti stessa è anche un caso paradigmatico di applicazione di nuovi modelli “razionali” di organizzazione del lavoro con il “Piano di analisi e valutazione delle mansioni” e l’applicazione della cosiddetta “cronotecnica” a partire dal 1953, una combinazione di job evaluation delle mansioni e di una politica dell’incentivo sotto forma di premio di produzione.
In generale, si può affermare che negli anni del boom economico l’americanismo trionfa nelle grandi fabbriche milanesi con la diffusione della catena di montaggio e della produzione in serie di componenti (Maifreda, 2006, 119). Si ha il diffondersi di variegate combinazioni di innovazione tecnologica/nuova organizzazione del lavoro che hanno in comune il far emergere come forza lavoro dominante nella grande fabbrica milanese la figura di quello che sarà definito con la categoria dell’“operaio-massa”: non più l’operaio di mestiere, ma un soggetto spesso più giovane ed immigrato, magari donna, non qualificato, ma che mette a disposizione dell’impresa una maggiore versatilità e compatibilità con le innovazioni tecnologiche tipiche di processi produttivi sempre più parcellizzati (Vignati, 1986, 189).
Settori come quello automobilistico, dei televisori o degli elettrodomestici dove il lavoro a catena è prevalente rappresentano una destinazione tipica di questa nuova forza lavoro. Nel settore dell’automobile un caso emblematico è ad esempio l’Autobianchi di Desio dove fino a metà degli anni Sessanta la maggioranza della forza lavoro proveniva dalla Brianza o era rappresentata da manodopera immigrata dal Veneto. Con il passaggio al gruppo Fiat si avvia una nuova politica delle assunzioni e nel biennio 1968-1970 i lavoratori provenienti dal centro-sud rappresentano più del 50% dei neo-assunti, in prevalenza impegnati in lavorazioni di linea con mansioni dequalificate (Luppi, 1973; Maifreda, 2006). Per il settore degli elettrodomestici si può citare il caso della Candy di Brugherio, alle porte di Milano. Questa azienda nel 1959 è una piccola impresa familiare con 150 dipendenti, mentre 10 anni dopo controlla il 50% del mercato nazionale delle lavastoviglie e il 40% del mercato delle lavatrici (Regini, 1974, 21-112). Questa storia di successo è il risultato combinato della capacità della proprietà di progettare innovazioni di prodotto, di processo e reti distributive efficaci, impiegando in gran parte operai comuni, spesso immigrati appena arrivati nel Milanese.

Operaia al lavoro in una fabbrica elettromeccanica, 1967

Operaia al lavoro in una fabbrica elettromeccanica, 1967. Foto di Silvestre Loconsolo (Archivio del Lavoro, Sesto San Giovanni)

La grande fabbrica milanese non è però una realtà omogenea. Vi sono settori dove il tayolofordismo risulta solo parzialmente applicabile. Un esempio tipico sono gli impianti a ciclo integrale come quelli dell’impresa siderurgica. Un caso emblematico è la Falck di Sesto San Giovanni dove vige una forma di organizzazione del lavoro che, in un quadro caratterizzato da una forte rigidità dei tempi e dei modi del lavoro operaio, si esplicita una stratificazione professionale e sociale delle maestranze molto accentuata (Maifreda, 2006, 134-136). E’ interessante notare come fino a tutti gli anni Sessanta in “Unione”, il principale stabilimento della Falck, la forza lavoro è pressoché tutta maschile e settentrionale, con una anzianità significativamente più elevata della media della forza lavoro industriale nel Milanese. La scelta di non assumere operai giovani e meridionali è il risultato di una esplicita politica aziendale di prevenzione del conflitto in fabbrica (Carabelli, 1975, 111).
Un altro caso aziendale nell’area milanese che segue un percorso simile a quello della Falck è la Ercole Marelli che nel secondo dopoguerra diviene una delle principali aziende italiane nel settore dell’elettromeccanica pesante (Maifreda, 2006, 137). Anch’essa si caratterizza per la presenza di una manodopera di età relativamente avanzata, con professionalità molto diverse e una stratificazione gerarchica delle mansioni in fabbrica (Dolci, 1975, 129-130).
In generale, nonostante la varietà delle esperienze aziendali, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta la maggioranza delle grandi fabbriche milanesi sperimentano una trasformazione del lavoro operaio nella direzione dell’automazione con effetti nella quotidianità lavorativa che sono ben sintetizzati dalle parole dell’operaio Eugenio C., (Ganapini, 1985, 101):
Lì è diventato un lavoro così automatico che lei non poteva andare più forte né andare più adagio. E allora era contro la natura umana, perché il sistema di lavoro dell’automazione a un certo punto fa a pugni con quello che è il nostro istinto, il nostro sistema nervoso, no? Mentre lei giustamente lavorando individuale si divideva il suo lavoro nell’arco della giornata e diceva: “per me l’importante è che per stasera faccio il numero di pezzi che è stabilito”, e poteva permettersi il lusso di stare una mezz’ora al gabinetto e poi accelerare un po’ i tempi e recuperare, ciò che con l’automazione e con i nastri rotanti non si poteva fare
Le condizioni di lavoro della manodopera operaia delle grandi fabbriche protagonista della Milano del Miracolo Economico sono spesso quelle descritte da un gruppo di lavoratori metalmeccanici milanesi in una relazione proposta durante un corso 150 ore nel 1974 (Agnoletto, 2011, 208):
Ognuno di noi si trova in aziende medie e grosse, ma tutte con molti difetti; i più generali sono: la mancanza di mezzi di protezione delle macchine (ed è questo causa di molti infortuni), la mancanza di luce naturale, il tempo dei cottimi sempre più stretti, ambienti rumorosi che quando si esce dall’azienda ci si sente ancora il grande frastuono nelle orecchie
È importante evidenziare come la grande fabbrica non è l’unica realtà produttiva che caratterizza la Milano del Miracolo Economico. Intorno ai grandi insediamenti industriali e nell’intero spazio urbano operano centinaia di aziende di medie e piccole dimensioni, alcune interne all’indotto manifatturiero delle grandi fabbriche, altre operanti in altri settori, quali l’edilizia, il commercio, i servizi e l’artigianato (Ricciardi, 2006, 223-224). A tale proposito è interessante notare come proprio nel decennio Cinquanta, quando Milano si impone come la capitale del Miracolo Economico italiano, si assiste a un lieve decremento relativo della quota delle attività economiche riconducibili ai tipici settori manifatturieri fordisti: infatti, mentre la meccanica cresce del 30,78% e la chimica del 60,51%, il settore “costruzioni e impianti” registra un incremento del 188,14% e quello dei trasporti ha un aumento dell’83,8% (Guiotto, 1986, 42-43). In generale, l’industria, che rimane comunque la principale attività economica milanese, nel corso degli anni Cinquanta vede diminuita la propria incidenza sul totale delle attività per un valore pari all’1,6%.
La presenza di una diffusa rete di aziende di piccole e medie dimensioni, ha rappresentato un elemento strutturale e tradizionale del “modello produttivo milanese” che anche in comparti considerati tipicamente tayloristici come quello metalmeccanico tende a scomporre le fasi del ciclo produttivo attraverso meccanismi di subappalto (Petrillo, 1992, 98): nel 1951 a Milano il 51% degli addetti di questo settore lavora in aziende di media e piccola dimensione. La spiegazione di tale fenomeno è rintracciabile in alcune peculiarità milanesi: in particolare il fatto che a Milano il settore metalmeccanico sia relativamente più indirizzato verso la produzione di beni di investimento e strumentali, piuttosto che verso beni di consumo durevoli per i quali sono più tipicamente richiesti la produzione standardizzata e una grande concentrazione di forza lavoro (Datol, Fajertag, Lissa, 1977, 117).
Un altro dato significativo è che nel corso degli anni Cinquanta, nel contesto di un mercato del lavoro comunque dominato dal lavoro dipendente, si registra un lieve calo della quota ad esso attribuibile rispetto al totale della forza lavoro: dal 77,8% del 1952 al 75,77% del 1959 (Guiotto, 1986, 46). La congiuntura favorevole dell’economia sembra aver favorito processi di autoimprenditorialità.
Ad esempio, negli anni Cinquanta si registra un proliferare di piccole imprese metalmeccaniche create spesso da attrezzisti che si sono specializzati in mansioni di fonderia, modellatura, aggiustaggio, manutenzione (Ricciardi, 2006, 224-225). Come ha segnalato Ferruccio Ricciardi, spesso queste piccole imprese sono realtà dove le tutele e le garanzie sindacali sono completamente assenti. Per questi padroncini la prassi diffusa è che non vi sia limite all’orario di lavoro, non vi siano giorni di malattia o di ferie, in una combinazione produttivistica di auto-sfruttamento dell’imprenditore e iper-sfruttamento delle poche maestranze. Il cambiamento di ruolo, da operaio a piccolo imprenditore, porta spesso con sé un cambiamento antropologico, con una rapidissima transizione dall’adesione ad una cultura operaia di natura solidarista e classista a un approccio fondato sull’imperativo dell’accumulazione libera da vincoli.
E’ però in settori esterni alla produzione manifatturiera che si riversa una quota significativa della nuova manodopera che raggiunge la Milano del Miracolo Economico. In particolare, il settore edile rappresenta per molti immigrati il primo approdo milanese (Ricciardi, 2006, 225-226). Il fatto che nell’edilizia prevalgano le mansioni a basso valore aggiunto in termini di qualificazione e professionalità, la rende funzionale al processo di avvicinamento all’esperienza del lavoro salariato da parte di una manodopera spesso con un background contadino. L’assenza di barriere professionali all’entrata e la oggettiva difficoltà incontrata dai tentativi di sindacalizzazione creano l’occasione per una facile entrata nel mercato del lavoro, ma al tempo stesso predispongono le condizioni per diffusi fenomeni di sfruttamento, precarietà, non rispetto delle norme contrattuali. In via generale, appare convincente quanto sostenuto da Massimo Paci nel descrivere l’edilizia come l’industria che svolge il ruolo di “ponte di passaggio” tra la condizione di bracciante a quello di operaio comune, una sorta di apprendistato per la disciplina di fabbrica (Paci, 1973).
Una ulteriore particolarità del mercato del lavoro milanese nella fase del Miracolo Economico è la grande espansione degli addetti alle attività terziarie, conseguenza anche della quasi inesistente innovazione tecnologica di questo settore che rappresenta una valvola di sfogo per le criticità congiunturali che si manifestano nel mercato del lavoro locale (Guiotto, 1986, 78).
Una caso emblematico è rappresentato dal settore dell’artigianato: tra il 1961 ed il 1970 le imprese artigiane a Milano passano da 57.262 a 67.051 unità (Frey, 1973, 207). Una forte componente del lavoro artigiano è rappresentato da lavoro a domicilio che riguarda soprattutto manodopera femminile: alcune stime coeve suggeriscono che al principio degli anni Settanta nella provincia di Milano lavorassero a domicilio almeno 100.000 donne (Maifreda, 2006, 163). Caratteristiche tipiche di questa forma di organizzazione del lavoro sono i lunghi orari di lavoro giornalieri (anche 12, 13 ore) e l’elevata parcellizzazione. Questa caratteristica è ben descritta da una coeva ricerca dell’Unione Donne Italiane (Frey, 1973, 202):
Chi ha la macchina da maglieria fa i pezzi (…) chi ha la macchine da puntino attacca i colli e le rifiniture. In ultimo c’è chi attacca i bottoni, i marchi di fabbrica, fa le asole, ricama (…) a questo punto il prodotto finito torna in fabbrica pronto per essere stirato, imbustato, spedito (…) La fabbrica è nelle case delle lavoranti a domicilio, gli stabilimenti sono la facciata delle ditte commerciali
Come emerge da questa testimonianza, un settore dove il decentramento a laboratori artigiani terzisti è molto diffuso è rappresentato dall’industria tessile e dell’abbigliamento (Maifreda, 2006, 165). Una ricerca della Filza Cisl di Milano del 1974 segnala come su 85 aziende del settore esaminate, solo 13 non effettuano alcun decentramento o esternalizzazione produttiva.

Il conflitto sociale

In questo quadro di un mercato del lavoro complesso, Milano diviene uno dei luoghi simbolici del conflitto sociale. Tra il 1950 ed il 1970, a causa del relativo macro-dimensionamento del suo apparato industriale e per evidenti ragioni simboliche in quanto all’avanguardia nei processi di modernizzazione capitalistica del sistema economico nazionale, Milano rappresenta infatti un esempio significativo delle modalità con cui si esplicita il conflitto sociale in Italia (Agnoletto, 2016). In particolare, Milano fu il paradigma rispetto a quello che Germano Maifreda ha definito il progetto politico industriale che consisteva nel tentativo di avviare un grande processo di integrazione aziendale della componente operaia, sollecitata a riconoscersi nella razionalità efficientista e nel presunto modernismo dell’impresa italiana proprio nel momento in cui il suo lavoro si impoveriva di significati (Maifreda, 2006, 115). In realtà, proprio il processo di modernizzazione razionalista dell’organizzazione del lavoro crea le condizioni per l’emergere di una classe operaia (fondata sulla figura dell’operaio-massa) caratterizzata da una consapevole estraniazione antagonista rispetto al modello aziendalista. I meccanismi di alienazione insisti nei processi produttivi automatizzati a catena creano le condizioni per un crescente senso di alterità rispetto all’identità aziendale e si combinano con l’evidenza di trend salariali e condizioni di lavoro non coerenti con la mistica del Miracolo Economico (Agnoletto, 2016)
È interessante notare come tale autonomia di classe, per una breve, ma significativa congiuntura, si impone come una della culture egemoni nella realtà milanese, non solo dentro le grandi fabbriche taylofordiste, ma nell’intera società. A partire dalle sfide alle contraddizioni che il Miracolo Economico crea all’interno delle grandi fabbriche, il movimento operaio milanese si pone come portavoce non solo delle proprie rivendicazioni, ma anche dei bisogni espressi da altri soggetti sociali nella prospettiva di rendere effettiva la condivisione generale dei benefici indotti dal Miracolo stesso. Questa capacità egemonica è anche il risultato dell’azione delle organizzazioni sindacali che riuscirono a farsi interpreti delle aspettative di una nuova classe operaia.
Il percorso verso la breve stagione dell’egemonia operaia, che ha il suo culmine con l’Autunno Caldo del 1969, non è lineare e risentì significativamente del variare delle congiunture politiche ed economico-produttive. L’immediato dopoguerra, in particolare la seconda metà del decennio Quaranta alle soglie del boom economico, rappresenta una fase di grande difficoltà per l’industria milanese e di conseguenza sono anni dove i rapporti di forza interni alle grandi fabbriche non sono favorevoli all’imporsi di una egemonia operaia. Sono gli anni della riconversione post-bellica, che per molte imprese significano fare una scelta tra le due uniche opzioni disponibili: ridurre gli organici e ammodernare prodotti e impianti oppure chiudere (Vignati, 1986, 185-186). Tra il 1949 ed il 1950 a Milano chiudono o sono ridimensionate 278 fabbriche con la perdita di 37.000 posti di lavoro (Petrillo, 1992, 103). Fra il 1949 ed il 1951 solo nel settore meccanico chiudono aziende come Caproni, Safar, Tallero, Isotta Fraschini, Breda Aereonautica, mentre altre aziende procedono con forti ridimensionamenti del personale con 25,000 licenziamenti nello stesso settore fra il 1948 ed il 1953 (Vignati, 1986, 186). Molti di questi licenziamenti, giustificati dalle necessità della conversione post-bellica, vengono usati per espellere dalle fabbriche i militanti sindacali più attivi, assicurando una sorta di pace sociale indotta dalla debolezza della controparte operaia. A partire dal 1952 in molte fabbriche metalmeccaniche milanesi le restrizioni e i vincoli imposti agli operai aderenti alla FIOM assumono il carattere dell’ordinarietà, una sorta di “normale prassi amministrativa da attuare nei confronti di chiunque si ponga al di fuori dei percorsi delineati dall’azienda” (Bertuccelli, 1997, 106-107). I provvedimenti disciplinari e le pratiche repressive divengono caratteristiche significative delle strategie imprenditoriali della prima metà degli anni Cinquanta, nel contesto di una piena ripresa di controllo padronale sulle aziende, dopo la breve stagione post-Liberazione caratterizzata da forme di governo operaio delle imprese e da una imponente azione rivendicativa che di fatto si conclude nel 1949.
I processi di ristrutturazione e l’offensiva anti-sindacale nelle fabbriche permette di creare le condizioni ottimali per ridurre al minimo gli elementi di conflitto sociale negli anni del decollo del boom economico. Questa fase termina alla fine degli anni Cinquanta con la ripresa di una diffusa conflittualità operaia nella fabbriche milanesi. Il contesto di tale inversione di tendenza è rappresentato dai nuovi equilibri che si sono creati sul mercato del lavoro con l’allargamento delle possibilità occupazionali e quindi l’inedita situazione per cui se un operaio era scontento delle proprie condizioni poteva “pensare di cambiare luogo di lavoro” (Bertuccelli, 1997, 173). Nelle grandi fabbriche milanesi si riflettono le contraddizioni del Miracolo Economico: uno sviluppo tumultuoso, che ha creato ricchezza e innalzato il livello generale dei consumi, ma ha anche prodotto evidenti sperequazioni nella redistribuzione dei guadagni prodotti, nel mancato miglioramento delle condizioni di lavoro, nelle incerte prospettive di mobilità sociale (Ricciardi, 2006, 237). Infine, anche i cambiamenti avvenuti all’interno di molte aziende, con i citati processi di innovazione tecnologica e automazione taylofordista e la rottura di equilibri gerarchici fondati sulla cultura del mestiere e della specializzazione operaia, concorrrono a creare le condizioni per una ricomposizione operaia e per la ripartenza della conflittualità in fabbrica.
Il momento di svolta è rappresentato dal contratto nazionale dei metalmeccanici del 1959 (Bertoli, 1980). In particolare, a partire da questo settore, un fattore che modifica significativamente le realtà delle grandi fabbriche milanesi fu il diffondersi della contrattazione aziendale con la conseguente messa in discussione dei meccanismi della contrattazione centralizzata che negli anni Cinquanta avevano concorso ad assicurare la pace sociale sul luogo di lavoro (Ricciardi 2006, 238). Lungo tutti gli anni Sessanta le fabbriche milanesi sono caratterizzate da una dinamica di contrattazione permanente a livello aziendale, che la forza della mobilitazione operaia indirizza sia nella direzione di rilanciare le conquiste ottenute con i contratti nazionali, sia ad allargare continuamente le rivendicazioni a nuovi temi, come la salute in fabbrica, i diritti sindacali, la revisione del sistema delle qualifiche, il ridimensionamento delle quote salariali a rendimento eccetera.

foto Archivio del Lavoro, Sesto San Giovanni

Assemblea permanente dei lavoratori contro l’arresto di tre operai dell’Alfa Romeo, 1973 (Archivio del Lavoro, Sesto San Giovanni)

L’Autunno caldo del 1969 rappresenta il momento culminante di questa fase di mobilitazione operaia e conflittualità diffusa. Nelle grandi fabbriche milanesi le organizzazioni sindacali si trovano spesso a dover rincorrere il rivendicazionismo dei delegati e il protagonismo operaio. In molte situazioni ciò significa la perdita di controllo da parte degli stessi sindacati della funzione negoziale in fabbrica a favore di strutture operaie autonome, come ad esempio il caso eclatante dell’Assemblea autonoma dell’Alfa Romeo (Finetti, 2000), e più in generale all’imporsi dei modelli di rappresentanza fondati sui consigli di fabbrica.
Il moltiplicarsi dello spontaneismo delle azioni e dell’auto-organizzazione, delle vertenze aziendali e dei temi oggetto di contrattazione hanno in comune l’emergere di alcune istanze che segnalano l’egemonia in fabbrica della nuova figura dell’operaio-massa. In particolare, emergono le spinte egualitarie, come la battaglia paradigmatica per l’inquadramento unico, ed anti-produttivistiche, come le vertenze per la continua riduzione dei carichi di lavoro (Musso, 2002, 230-238). Tali impostazioni rappresentano una cesura definitiva rispetto alla cultura del lavoro di cui erano stati portatori i vecchi operai di mestiere (Ricciardi, 2006, 243).
Queste novità ben presto escono dalla fabbrica ed evidenziano la capacità egemonica sull’intera società esercitata, seppur per un breve periodo, da questa nuova classe operaia. In questa direzione Milano diviene uno dei capisaldi della cosiddetta “strategia delle riforme” incarnata inizialmente dalla FLM, la federazione unitaria dei metalmeccanici, che consiste nel saldare la trattativa contrattuale con la promozione generalizzata di lotte per le riforme articolate anche a livello territoriale (scuola, trasporti, casa, sanità, costo della vita) (Becchi Collida, 1973,114-118).
In questa prospettiva si comprende il ruolo strategico giocato dalla classe operaia milanese nella congiuntura tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta come soggetto collettivo capace di aggregare gruppi sociali più ampi. Questa forza aggregativa agisce nella direzione di rendere partecipi del benessere creato negli anni del Miracolo Economico anche ampie fasce della popolazione estranee al mondo della fabbrica. Un caso paradigmatico è rappresentato dal mondo del lavoro delle piccole aziende, del piccolo commercio e dell’artigianato che rappresentano grandi riserve di manodopera sotto-occupata, con bassissimi livelli salariali, alta precarietà occupazionale e debolissime coperture sindacali (Guiotto, 1986, 78) che ne fanno un potenziale esercito di riserva da utilizzare contro la mobilitazione operaia. Al contrario a Milano molti di questi lavoratori divengono protagonisti delle lotte per i diritti sociali fondamentali, come la casa, la sanità o l’istruzione, nel quadro di una alleanza sociale che fa perno sulla forza del lavoro organizzato delle grandi fabbriche (Agnoletto, 2016).

Dagli anni Settanta al principio del Ventunesimo secolo

Il mercato del lavoro milanese negli anni Settanta è caratterizzato da un drammatico ridimensionamento occupazionale nel settore manifatturiero con una contrazione del 26,5% tra il 1971 e il 1981 (Cciaa, 1991, 16). Tale contrazione è soprattutto il risultato di macro-fenomeni globali quali le crisi petrolifere, con la conseguente impennata del costo delle materie prime energetiche, combinate con processi macro-inflattivi e crisi strutturali e congiunturali che colpiscono vari settori industriali, ad esempio quello tessile (Pizzorni, 2006, 349). La reazione a tali fenomeni comporta l’avvio di processi di riorganizzazione dell’assetto tecnologico-produttivo, soprattutto nelle grandi aziende, con riduzione significativa della manodopera, ai quali si affiancano processi di delocalizzazione.
Nel decennio Settanta la crescita occupazionale nel settore dei servizi (+7,8% tra il 1971 e il 1981), non è in grado di riequilibrare il dato negativo del manifatturiero, così che il saldo occupazionale totale si attesta su una riduzione del 9,1% (Cciaa, 1991, 16). Gli anni Settanta sono quindi caratterizzati soprattutto dal fenomeno della deindustrializzazione, con la chiusura del ciclo virtuoso che, pur con tutte le sue contraddizioni, era iniziato a inizio Novecento e che aveva dato a Milano la leadership della industrializzazione nazionale. Il susseguirsi di crisi aziendali e la chiusura di grandi siti produttivi, con l’espulsione dalla fabbrica di migliaia di lavoratori e lavoratrici è l’elemento più visibile sul mercato del lavoro milanese di questo decennio.
Al contempo i processi di terziarizzazione e l’incremento della manodopera nei settori non-industriali, in particolare nei servizi, evidenziano l’emergere di processi che caratterizzeranno i decenni seguenti.
Con il decennio Ottanta il saldo delle variazioni del mercato del lavoro milanese torna a far registrare risultati positivi. Infatti, a fronte della prosecuzione della contrazione occupazionale del settore manifatturiero (-2,1% tra il 1981 e il 1989), si segnala un significativo incremento della forza lavoro impiegata nel settore dei servizi (+ 18,4%) così che il saldo totale degli occupati è pari a un incremento del 10,4% nel decennio (Ccia, 1991, 16).
La crescita del terziario e del settore dei servizi è il risultato di fenomeni diversi (Pizzorni, 2006, 350). Innanzitutto è il risultato diretto della progressiva esternalizzazione di funzioni terziarie svolte in precedenza all’interno delle industrie, ma è anche la conseguenza della creazione di nuova domanda sia da parte delle stesse imprese, sia da parte delle famiglie. Come ha segnalato Geoffrey Pizzorni, ciò comporta la crescita di mercati sufficientemente ampi da rendere possibile l’affermazione di imprese terziarie specializzate che attraggono manodopera (Pizzorni, 2006, 350). Ad esempio, nel decennio Ottanta il solo comparto delle imprese di servizi destinati alla vendita vede incrementare il numero degli addetti di 120.000 lavoratori, con un tasso medio di sviluppo superiore al 2%.
In generale negli anni Ottanta si segnalano evidenti travasi di manodopera dal manifatturiero al terziario: tra il 1981 ed il 1989 ad esempio, mentre la manodopera del settore dell’industria meccanica cala del 9,4% e quella nel settore chimico del 12,2%, gli impiegati nell’edilizia crescono del 16,9%, nel commercio del 6,9%, con il boom del settore del credito , assicurazioni e servizi alle imprese che registra un saldo positivo del 49,4% (Ccia, 1991, 19).
Negli anni Novanta e ancora nel primo decennio del Ventunesimo secolo prosegue il trend di riduzione degli addetti all’industria manifatturiera: nel decennio 1991-2001 essa perde il 37% dei suoi addetti e nel decennio seguente scompaiono altri 20.000 addetti, cosicché nel 2011 la forza lavoro impiegata nel settore manifatturiero è ridotta a 60.000 unità, pari a meno del 7% dell’occupazione extra-agricola totale dell’area comunale (Gibelli, 2016). Come ha evidenziato Maria Cristina Gibelli, se si allarga lo sguardo all’area metropolitana, il quadro non si modifica significativamente: tra il 1991 ed il 2011 l’hinterland non accoglie più l’occupazione manifatturiera in fuga dal centro urbano, come in parte era accaduto in precedenza, ed anzi perde il 16% dell’occupazione negli anni Novanta e quasi il 30% nel primo decennio del Ventunesimo secolo. La stessa autrice, elaborando i dati ISTAT, segnala la parallela continua crescita degli addetti ai servizi privati
Il processo di deindustrializzazione produce processi di diversificazione complessa nel mercato del lavoro locale che in parte favoriscono la nascita di nuove figure professionali, mentre in altri casi fanno riemergere fenomeni sociali di lunga durata. Negli anni Ottanta molti operai espulsi dalle grandi fabbriche si riconvertono in attività di piccola manifattura e artigianato rinverdendo una tradizione di micro-impresa che affonda le sue radici nel mondo pre-industriale (Ricciardi, 2006, 245). Al contempo, soprattutto a partire dagli anni Novanta, emerge una segmentazione etnica del mercato del lavoro, con l’affidamento dei lavori manuali alla nuova forza lavoro immigrata, con l’emergere di fenomeni diffusi di sfruttamento. Gli ultimi decenni del Novecento vedono anche la diffusione dei nuovi lavori creati nel settore dei servizi e che sono i protagonisti della cosiddetta “Milano da bere”: dalle attività bancarie, e finanziarie, al design, alla moda, ai media , alla pubblicità.
Come ha notato Ferruccio Ricciardi, è a partire dagli anni Ottanta che il mercato del lavoro milanese diviene un nuovo laboratorio sociale, dove si sperimentano fenomeni radicali di atomizzazione del lavoro, con l’esplodere delle partite IVA, delle attività para-subordinate, del lavoro interinale (Ricciardi, 2006, 245). In realtà in molti casi essi rappresentano il nuovo lavoro dipendente, figlio di quello espulso dalla fabbrica fordista nei decenni precedenti e non più operaio massa, ma in realtà spesso forza lavoro salariata camuffata, che si ritrova ad operare sul mercato del lavoro in condizioni contrattuali di estrema debolezza e solitudine.

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